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In arrivo nuove cure per chi soffre di osteoporosi

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I risultati di una ricerca finanziata dall'UE sui meccanismi che stanno dietro agli effetti benefici dell'esercizio fisico sulle ossa potrebbero portare a nuove cure per chi soffre di osteoporosi.


La ricerca è stata condotta come parte del progetto ATPBone ("Fighting osteoporosis by blocking nucleotides: purinergic signalling in bone formation and homeostasis") che ha ricevuto quasi 3 milioni di euro di finanziamenti nell'ambito del tema "Salute" del Settimo programma quadro (7° PQ) della Commissione europea.

ATPBone, il più ampio progetto di ricerca europeo sulla biologia delle ossa e l'osteoporosi mai realizzato in questo campo, ha svolto le sue attività dal 2008 al 2010 e ha riunito scienziati provenienti da Belgio, Danimarca, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito. Il team di scienziati provenienti da tutta Europa ha studiato come il tessuto osseo si mantiene e come specifiche molecole di segnalazione biochimica regolano la degradazione dell'osso e anche la formazione di nuovo tessuto osseo.

"È ampiamente riconosciuto che l'esercizio fisico previene l'osteoporosi, dopo il progetto ATPBone sappiamo anche il perché", dice il professor Peter Schwarz dell'Ospedale universitario di Copenhagen Glostrup in Danimarca, l'istituzione coordinante.

Per i pazienti, l'insorgenza dell'osteoporosi è caratterizzata da un eccessivo indebolimento delle ossa e da frequenti fratture. I ricercatori stimano che nel 2000 si sono verificate in Europa 3,8 milioni di fratture dovute all'osteoporosi. Oltre alle fratture ossee, l'osteoporosi può essere diagnosticata anche misurando il contenuto minerale delle ossa facendo una "assorbimetria a doppia energia". Questo esame può determinare se il paziente ha la malattia o se soffre di bassa massa ossea, un disturbo che può svilupparsi in seguito in osteoporosi.

Anche se le cure possono recuperare una parte della massa ossea perduta, l'osteoporosi è in generale una malattia incurabile ed è più comune nelle donne che negli uomini. Un anziano su cinque con una frattura dell'anca muore entro un anno dal verificarsi della frattura.

Gli scienziati del progetto ATPBone sono riusciti a dimostrare che l'attività fisica e altri stimoli delle ossa inducono il rilascio del composto chimico ATP. Questo composto biochimico regola il ricambio delle ossa attraverso un'azione sui cosiddetti recettori purinergici, la cui presenza sulle cellule ossee è stata dimostrata.

Oltre a questa scoperta, gli scienziati hanno scoperto che trattando le cellule ossee con l'ormone paratiroideo, che è prodotto nel corpo umano ed è usato anche dai medici per curare l'osteoporosi grave, si induce un maggiore rilascio di ATP su stimolazione meccanica e che l'ATP e l'ormone paratiroideo interagiscono sui recettori. Questo significa che il sistema di segnalazione purinergica che agisce localmente potrebbe interagire con i sistemi ormonali nel corpo.

Niklas Rye Jörgensen, coordinatore del progetto ATPBone e ricercatore dell'Ospedale Glostrup e dell'Università di Copenhagen dice: "Con ATPBone abbiamo dimostrato che il sistema di segnalazione purinergica ha effetti profondi sul rinnovo delle ossa e che questo è un potente sistema attraverso il quale possiamo potenzialmente prevenire o persino curare l'osteoporosi."

Jörgensen sottolinea anche che, oltre a essere musica per le orecchie dei pazienti, queste scoperte hanno importanti implicazioni economiche per la società. Per quanto riguarda le conseguenze sui servizi sanitari europei, i costi medici diretti relativi alle fratture da osteoporosi sono stimati sui 36 miliardi EUR l'anno, quindi qualsiasi nuova cura aiuterebbe a ridurre questo peso finanziario.

In definitiva, gli scienziati sperano che le loro scoperte aiuteranno a soddisfare le esigenze dell'Europa di sviluppo di nuovi farmaci anti-osteoporosi e, visto che l'incidenza dell'osteoporosi aumenterà sicuramente negli anni a venire tra la popolazione europea che invecchia, tale esigenza non è mai stata più pressante.
 

Flash News

Nella mappa tra gli hot-spots più colpiti ci sono Amazzonia, le savane boschive di  Miombo nell'Africa meridionale, l’Australia sudoccidentale e il Mediterraneo

Mancano 10 giorni dall’evento globale su clima e ambiente - Earth Hour

Se le emissioni di CO2 continueranno ad aumentare senza controllo, il mondo è destinato a perdere almeno la metà  delle specie animali e vegetali oggi custodite nelle aree più ricche di biodiversità. A fine secolo potremmo assistere ad estinzioni locali in alcuni paradisi come l’Amazzonia, le isole Galapagos e il Mediterraneo. Anche rimanendo entro il limite di 2°C posto dall’accordo sul clima di Parigi, perderemmo il 25% delle specie che popolano le aree chiave per la biodiversità. È uno dei risultati più allarmanti del nuovo studio pubblicato oggi sulla rivista Climatic Change e realizzato da esperti dell’Università dell'East Anglia, della James Cook University e dal WWF.
Pubblicata a pochi giorni dall’evento globale Earth Hour, il più grande movimento globale per l'ambiente in programma il prossimo 24 marzo, la ricerca ha esaminato l'impatto dei cambiamenti climatici su circa 80.000 specie di piante e animali in 35 delle aree tra le più ricche di biodiversità sul pianeta. La ricerca esplora gli effetti sulla biodiversità alla luce di diversi scenari di cambiamento climatico - dall’ipotesi più pessimista con assenza di tagli alle emissioni e conseguente aumento delle temperature medie globali fino 4.5° C, a quella di un aumento di 2 °C, il limite indicato dall’Accordo di Parigi. Le aree sono state scelte in base all’unicità e varietà di piante e animali presenti. Le savane boschive  a Miombo in Africa, dove vivono ancora  i licaoni, l’Australia sudoccidentale e la Guyana amazzonica si prospettano essere tra quelle più colpite.
In queste aree gli effetti di un aumento di 4.5 °C creerebbe un clima insostenibile per molte specie che oggi vivono in questi paradisi naturali, ovvero:
- Fino al 90% degli anfibi, l’86% degli uccelli e l'80% dei mammiferi si potrebbero estinguere localmente nelle foreste a Miombo, in Africa meridionale
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- Nell’ Australia sudoccidentale l'89% degli anfibi potrebbe estinguersi localmente
- Nel  Madagascar il 60% di tutte le specie sarebbe a rischio di estinzione locale
- Le boscaglie  del  fynbos nella regione del Capo Occidentale in Sud Africa, che stanno vivendo una fortissima siccità con carenze idriche significative verificatesi anche a  Città del Capo, potrebbero affrontare estinzioni locali di un terzo delle specie presenti, molte delle quali sono uniche di quella regione
Mediterraneo bollente. Il Mediterraneo è tra le Aree Prioritarie per la biodiversità più esposte ai cambiamenti climatici, in cui basterebbe un cambiamento climatico “moderato” per rendere vulnerabile la biodiversità: anche se l'aumento delle temperature si limitasse a 2 °C, quasi il 30% della maggior parte dei gruppi di specie analizzate di piante ed animali sarebbe a rischio. Continuando con gli attuali andamenti , senza cioè una decisa diminuzione delle emissioni di gas serra, la metà della biodiversità della regione andrà persa. Le specie più a rischio sono le tartarughe marine (si tratta di tre specie, la più diffusa è la Caretta caretta) e i cetacei, presenti in Mediterraneo con 8 specie stabili e altre 13 presenti occasionalmente, tutti in sofferenza già per altri tipi di impatto antropogenici. L’innalzamento delle temperature probabilmente supererà la variabilità naturale del passato, rendendo questa zona del pianeta un hotspot dell’impatto climatico. Dovremo aspettarci periodi di siccità in tutte le stagioni, con potenziali stress da calore per gli ecosistemi e le specie  più sensibili, come le testuggini d'acqua dolce, o gli storioni: Questi ultimi sono minacciati sia per il cambiamento del regime di salinità, sia per la riduzione dell'areale idoneo, combinazione drammatica per specie già fortemente indebolite dalla pesca illegale.
Oltre a ciò, l'aumento delle temperature medie e l’irregolarità delle precipitazioni potrebbe diventare la nuova “normalità”, secondo il rapporto, con una significativa riduzione delle precipitazioni nel Mediterraneo, in Madagascar e nel Cerrado-Pantanal in Argentina.

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