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L’impronta digitale del diamante blu

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Un nuovo metodo per scoprire i “falsi” diamanti

Conservato nello Smithsonian Institute of Natural History di Washington, il diamante Hope blu è forse uno dei più celebri e ammirati del mondo, sarà per quei magnetici bagliori azzurri che conquistarono il cuore di Luigi XIV nel 1668, o per le rocambolesche avventure di cui fu protagonista nei secoli, tra furti misteriosi e illustri proprietari.

Oltre ad attirare ogni anno milioni di turisti, il “diamante blu della Corona” oggi è anche nel mirino degli scienziati, che hanno scoperto un metodo semplice ed efficace per distinguere gli autentici diamanti blu da quelli falsi o contraffatti. Hope blu appartiene ad una categoria di gemme particolarmente rara, denominata IIb. Esposto alla luce naturale, questo tipo di diamante appare di un intenso colore blu. Se però spegniamo la luce e lo illuminiamo con un fascio di raggi ultravioletti, diventa fluorescente e “brilla” al buio per alcuni istanti. L’energia accumulata, infatti, viene rilasciata sotto forma di onde luminose, il cui spettro varia dal blu al rosa, fino ad arrivare al rosso-arancione, tipico del diamante Hope blu: questa singolare reazione dipende dalla presenza di particelle di boro e nitrogeno.
Un gruppo di ricerca coordinato da Peter J. Heaney , Jeffrey E. Post  e Sally Eaton-Magaña , ha analizzato oltre duecento diamanti della collezione Aurora Heart, tra cui molti diamanti blu. Tra gli esemplari testati c’erano anche il Blue Heart e i diamanti della Aurora Butterfly Collection di New York. Sessantasette erano naturali, tre sintetici e uno era stato colorato dagli stessi ricercatori con trattamenti chimici.
Gli scienziati hanno irradiato ciascun diamante con fasci di luce ultravioletta di diverse lunghezze d’onda e hanno misurato l’intensità e la durata della fluorescenza delle gemme. Finora si pensava che la colorazione rossa fosse particolarmente rara; l’esperimento, invece, rivela che tutti i diamanti blu naturali brillano per diversi secondi a due lunghezze d’onda diverse: quella verde-azzurro (500 nanometri) e quella rossa (660 nanometri). Combinando insieme i dati relativi alla variazione di intensità luminosa e quelli relativi alla durata si ottiene, secondo gli scienziati, una vera e propria “impronta digitale” del diamante blu: una carta d’identità che permette di distinguere con precisione le gemme autentiche da quelle contraffatte. Le pietre false e quelle colorate artificialmente, infatti, non emettono alcun tipo di fluorescenza quando sono esposte ad una radiazione con lunghezza d’onda pari a 660 nanometri, corrispondente allo spettro del rosso.
Questa tecnica permetterà ai gemmologi di riconoscere anche i singoli “pezzi” di un diamante rubato e tagliato in pietre più piccole.

  1. Mineralogista e professore di Geoscienze presso la Penn State University
  2. Smithsonian Institute di Washington
  3. Eaton-Magaña et al., Using phosphorescence as a fingerprint for the Hope and other blue diamonds Geology. Gennaio 2008; 36: 83-86

Veronica Rocco

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