Il sangue malato di Bela Bartok
La musica di Bartok (1881-1945) ha segnato favorevolmente il destino della musica popolare ungherese, l’ha rivalutata e fatta conoscere al mondo, le sue ricerche sonore ed il loro successivo trasferimento nelle sue composizioni hanno dato un sapore tutto speciale ai suoi lavori, oggi celebrati in tutto il mondo come capolavori dell’arte musicale del XX secolo.
Nel 1942 il compositore era in America, dove viveva componendo musiche e trascrivendo canzoni serbo-croate per la Columbia University, un lavoro che certo non era molto interessante ma che gli serviva per vivere. In quel periodo cominciò a soffrire di stanchezza prolungata, ma gli fu diagnosticata una semplice influenza. Ma egli non si riprese mai del tutto, anzi, era continuamente afflitto da intermittenti accessi di febbre, e, poco dopo, scoprì di essere fortemente anemico. Dopo vari esami del sangue e del midollo osseo i medici newyorkesi poterono formulare l’esatta diagnosi: leucemia mieloide cronica.
Ma il compositore non fu messo subito al corrente della malattia di cui soffriva, gli fu detto che il suo caso “lasciava perplessi” e che forse aveva una recidiva di una “lesione tubercolare” di cui aveva sofferto da ragazzo. Questo pietismo non valse nulla, la perspicacia del compositore non fu certo ingannata dalle parole ambigue e vaghe dei medici, ed egli comprese ben presto di non avere molto tempo da vivere.
E per una coincidenza niente affatto strana il periodo più triste e difficile della sua esistenza diede vita in lui ad una fervidissima vena creativa, cui corrispose una fase di grande produzione artistica: Bartok compose bellissime musiche proprio in quegli ultimi anni, nonostante le continue trasfusioni di sangue ed i frequenti ricoveri in ospedale.
La malattia di Bartok cominciò – come spesso in questi casi – in una forma insidiosa e nascosta, e finì con una trasformazione improvvisa e violenta che portò alla sua fase terminale (crisi degli emocitoblasti).
Questa era la situazione del musicista, che a quel tempo si trovava solo in terra straniera ed in uno stato d’animo depresso e malinconico da cui, forse, solo la musica poteva risollevarlo, anche se per poco. Egli appariva pallido ed emaciato, la sua pelle aveva un aspetto malsano, traslucido, si era chiuso in sé stesso e negli occhi aveva un’espressione d’abbandono e di dolore profondo che stringeva il cuore.
Il paesaggio rurale lo sollevava un poco, e anche se la campagna della sua terra era tanto lontana il verde dei paesaggi americani gli fu di qualche conforto, e la contemplazione profonda di quella natura lo spinse a meditazioni importanti; nelle sue lettere egli usò l’analogia di un albero che veniva consumato da insetti come metafora della distruzione della civiltà europea da parte del nazismo, o anche di se stesso nei confronti della malattia che – letteralmente – lo consumava giorno per giorno.
“Mentre l’albero era ancora alto e dritto, veniva già divorato da milioni di insetti ronzanti sotto le sue propaggini […] da molti vermi ed insetti coriacei gialli, marroni e neri […] milioni nel corpo di un solo albero svettante. L’albero cade e gli insetti se ne appropriano completamente”.
Bartok pativa la sua dipendenza dai medici, dalle infermiere e dalle cure che lo mantenevano in vita, detestava le trasfusioni di sangue e l’inattività imposta dalla convalescenza.
Per poterlo risollevare dallo stato di tristezza in cui versava, l’editore americano Ralph Fox gli scrisse spronandolo a comporre. In verità questa era una richiesta che non costava un grande sforzo mentale per il compositore, che, nonostante la malattia che lo affliggeva, rimaneva lucido e con una fantasia musicale attiva e vivace, e ci fu anche il direttore d’orchestra Serge Koussevitsky che lo esortò a mettersi al lavoro.
Così, nella campagna del North Carolina, nell’estate del 1944, nacque il “Concerto per orchestra”.
Bartok compose questo pezzo complesso con una rapidità ed un’intensità impressionanti, ed il direttore Koussevitsky presentò il brano in prima esecuzione verso la fine dello stesso anno con la Boston Symphony Orchestra, lasciando il compositore commosso e soddisfatto del suo lavoro.
Questa felice esperienza scatenò in lui una fiammata successiva di attività creativa, ed egli in brevissimo tempo completò la “Sonata per violino solo”, un capolavoro aggressivo, introspettivo ed intenso, che riflette in modo impressionante il tumulto del suo animo di quel momento.
Ed ancora, nel 1945, nacque il “Concerto per pianoforte n.3”, che Bartok riuscì a terminare – tranne le ultime diciassette battute – pochi giorni prima di morire. Fra le opere ispirate all’avvicinarsi della morte, questo brano di musica è il più grandioso, con un’intensa espressione addolorata della sua anima persa e con in più il sapore della bellezza delle pacifiche e selvagge regioni americane che lo avevano accolto dopo l’abbandono della sua terra. È un Andante religioso, lento e riflessivo, che evoca boschi tranquilli ed i giochi delle piccole creature che li abitano. Nelle campagne di quel grande paese il compositore trovò la pace che non esisteva nelle città, risollevando il suo animo al punto tale che quasi pensò d’essersi sbagliato sulla sua malattia.
Nell’Agosto del 1945 gli ritornò la febbre assieme a quel diffuso malessere che lo stroncava da ogni possibilità di vita serena, Bartok era di nuovo malato e perse rapidamente peso, quindi fu immediatamente ricoverato..
Il peggioramento di Bartok fu inesorabile e progressivo, morì dopo un mese dall’ultimo ricovero, causa un peggioramento improvviso della malattia trasformatasi in una forma più rapida e maligna.
Marina Pinto