Fab@Home, ovvero la fabbrica dei sogni. Nasce in America la prima stampante tridimensionale “fai-da-te”
Fab@home, ossia “fabbrica in casa”. Questo il nome con cui due giovani ricercatori della Cornell University hanno lanciato sul mercato il loro ultimo gioiello tecnologico: una stampante tridimensionale – collegata ad una computer – che occupa più o meno lo stesso spazio di una stampante tradizionale, ma anziché stampare ‘a getto d’inchiostro’, stampa ‘a getto di plastica’.
Con l’ausilio di una speciale testina, scannerizza una superficie e vi deposita sottili strati di materiale plastico seguendo le forme e le linee della matrice fornita dal software, fino a “fabbricare” letteralmente l’oggetto. La plastica non è l’unico materiale utilizzabile, anche se, per le sue caratteristiche di leggerezza e adattabilità, è sicuramente quello più indicato. Si possono realizzare prototipi con il gesso, la plastilina, il silicone, la cera e alcune leghe di metallo [1]. Una fabbrica in miniatura, insomma, capace di sfornare accessori, utensili da lavoro, oggetti di design, tutto in poche ore e stando comodamente in casa.
Sono in molti ormai a ritenere che le stampanti 3D produrranno in campo digitale una rivoluzione molto simile a quella introdotta all’inizio degli anni’70 dal primo Personal Computer. La vera novità di un’apparecchiatura come Fab@Home, infatti, non consiste tanto nella sua tecnologia – che è nota da oltre vent’ anni nell’ambito della progettazione architettonica e industriale – quanto nella sua accessibilità all’ utente medio, grazie ad uno scarso ingombro e a prezzi decisamente contenuti. Entro la fine dell’anno, la società californiana Desktop Factory immetterà sul mercato il primo modello di stampante 3D a 5000 dollari, che nel giro di qualche anno scenderà a 1000. Un risultato sorprendente se pensiamo che in passato costava almeno 100 mila dollari.
Le applicazioni di questa tecnologia sono di vasta portata: dalla medicina [2], all’elettronica, fino ad arrivare alla robotica e all’ingegneria aerospaziale, come sottolinea Hod Lipson, trentanove anni, direttore del laboratorio di Sintesi Computazionale della Cornell University, nonché ideatore di Fab@Home. Quello che oggi appare ancora avveniristico fra qualche anno potrebbe diventare realtà: una stampante tridimensionale in grado di “stampare” robot da lanciare nello spazio. In caso di necessità, il dispositivo è pronto a riprodurre qualunque componente difettoso o mancante, e se il robot si guasta, niente paura, ne verrà stampato uno nuovo di zecca!
Se questa è (quasi) fantascienza, esistono però prospettive di sviluppo molto più concrete. Nel 2000, l’équipe di Lipson, in collaborazione con il professor Jordan B. Pollack della Brandeis University, ha messo a punto un programma che - per la prima volta – è in grado di realizzare robot senza ricorrere all’intervento dell’uomo. Il software utilizzato imita i principi dell’evoluzione naturale in una dimensione puramente virtuale. Il risultato è sorprendente: la stampante tridimensionale copia letteralmente i robot dal mondo virtuale del software a quello fisico. Nell’esperimento del 2000, in realtà, l’intervento umano c’è stato. Motori, batterie, sistemi di controllo sono stati progettati e inseriti dagli scienziati. Ma cosa accadrebbe – si domanda Lipson – se il processo evolutivo avesse seguito il suo naturale sviluppo e il software avesse riprodotto non solo la struttura dei robot ma anche tutti i processi interni? La domanda apre scenari inquietanti, ma esperimenti effettuati in altri campi dimostrano che la cosiddetta “autodeterminazione” dell’intelligenza artificiale può produrre risultati inediti e altamente complessi.
Un prototipo di Fab@Home è attualmente esposto al Science Museum di Londra, dove è in corso la mostra “Plasticity – 100 years of making plastics”, che sarà aperta al pubblico fino all’1 gennaio 2009. Lungo i padiglioni della mostra londinese si snodano le tappe fondamentali della storia della plastica, un materiale che forse più di ogni altro ha saputo incarnare la grande ossessione consumistica del secolo appena trascorso.
Versatile, flessibile, leggera, resistente, praticamente indistruttibile, la plastica [3] ha dominato incontrastata ogni aspetto della nostra vita, avvolgendo i nostri gesti quotidiani ma anche i nostri sogni di celluloide. Nasce ufficialmente nel 1907, quando il belga Leo Baekeland realizza il primo materiale interamente sintetico, la bakelite, ricavata dalla distillazione del carbone, ma già 70 anni prima Regnault inventava il PVC. E se nel 1938 la plastica diventa famosa in tutto il mondo inguainando le gambe di milioni di donne in pratiche e leggere calze di nylon, nel ’48 è al servizio della NASA, che mette a punto il Plexiglass.
Quest’anno compie cento anni, ma ne impiega almeno duecento per decomporsi. In un mondo che fatica a metabolizzare le proprie scorie, la plastica, ora differenziata, ora riciclata, ora smembrata e ricomposta, continua ad essere una presenza ingombrante e pervasiva: la monnezza di Napoli, la surreale baraccopoli di Dharavi a Mumbai, in India, l’enorme vortice di plastica che staziona nel Pacifico [4], le 600 mila tonnellate di rifiuti che invadono il Mare del Nord. E l’elenco potrebbe continuare. La mostra di Londra, dunque, celebra l’anniversario della nascita della plastica, ma anche la sua insostenibile leggerezza, e ne commemora l’ineluttabile fine, poiché quella leggerezza, per poter sopravvivere a se stessa, deve diventare eco-sostenibile e bio-degradabile al 100%, come i sacchetti per la spesa ottenuti dalla cassava [5], la nuova plastica “con zuccheri aggiunti” o la nuova auto elettrica ultracompatta Toyota I-unit, costruita interamente con fibre naturali.
Il paradosso è che mentre una parte del mondo si ingegna a trovare metodi innovativi per smaltire la plastica, l’altra parte si ingegna a trovare metodi altrettanto innovativi per produrla comodamente a casa propria, con un semplice click. O forse, non è così paradossale come sembra. Nell’era dell’ipertrofia tecnologica, la tecnologia produce un frutto impazzito: Fab@Home, che evoca il mito dell’Homo Faber, l’uomo-demiurgo che plasma la materia bruta come il dio Vulcano nella sua fucina e costruisce da solo gli oggetti della sua casa, del suo lavoro, del suo tempo libero, forse anche i suoi stessi sogni.
Ma se la casa diventa la fabbrica dei sogni, l’uomo può davvero dirsi “faber fortunae suae”, artefice del proprio destino, come voleva l’adagio latino: può scegliere di plastificare il mondo con un click oppure contribuire a fare un mondo a misura d’uomo, utilizzando la tecnologia per liberare la propria creatività. La progettualità, svincolata dalle logiche industriali della produzione di massa, consentirebbe, da un lato, di soddisfare i bisogni e i gusti individuali, dall’altro di orientarli verso un consumo più responsabile e “sostenibile”.
Note:
[1] La presenza di testine multiple consente di realizzare oggetti composti con material diversi. Un circuito elettronico, ad esempio, può essere riprodotto combinando un semiconduttore di origine organica, inchiostri di origine metallica e isolanti di ceramica
[2] L’équipe coordinata da Hod Lipson sta progettando nuovi materiali per costruire impianti di ossa e cartilagine utilizzando cellule del paziente con minor rischio di rigetto
[3] La plastica si ottiene dalla lavorazione di sostanze organiche quali il carbone, il gas e il petrolio. Per le sue indiscusse qualità di resistenza e leggerezza, trova ampio utilizzo nei più svariati settori, dall’edilizia, dove, nella sola Europa, vengono utilizzati oltre sei milioni di tonnellate di plastica ogni anno, all’industria dei trasporti, che assorbe il 7% della produzione mondiale, passando per le fibre ottiche, i microchip, i computer, la telefonia cellulare, m anche le attrezzature sanitarie e sportive. Ogni anno nel mondo vengono prodotti circa cento miliardi di chilogrammi di plastica, di cui il 10% finisce in mare.
[4] Si chiama Pacific Trash Vortex. E’ un’isola di spazzatura, per l’80% costituita da plastica, che si è formata a partire dagli anni’50 grazie all’azione di una corrente oceanica a spirale. Attualmente ha un diametro di 2500 chilometri
ed è profonda 30 metri. Il suo peso ha raggiunto 3,5 milioni di tonnellate.
[5] La cassava è un tubero a metà strada fra la rapa e la patata, originario dell’America Latina. Il materiale a base di cassava è stato realizzato a Tokyo da Hitachi Zosen e CPR.
Veronica Rocco