Seul, tra grattacieli e industria informatica da primato mondiale, fa da scenario ai bassifondi della stessa città, dove si consumano le più inimmaginabili nefandezze, al fine di riscuotere soldi prestati ad usura. Più che di pietà si parla di vendetta, una revenge mascherata da pietà nel film Pieta del coreano Kim Ki Duk che ringrazia, per il massimo riconoscimento veneziano, la giuria presieduta da Michael Mann, con un canto popolare del suo Paese.
Un giovane, Kang-do, lavora con uno strozzino e vive in uno squallido e sporco bugigattolo ma ha la faccia charmant e indossa un giubbotto di pelle glamorous, alla Arthur Fonzarelli di Happy Days. La “madre”, inizialmente vestita di rosso, per meglio incarnare un’esistenza votata al dolore o predestinata allo stesso, come fosse la Vergine - anche troppo giovane come fosse Maria nata dal genio di Michelangelo - è un personaggio monocorde come il “suo bambino”, accetta ogni cosa passivamente. Il regista rifiuta, nel suo film, una lettura del rapporto madre-figlio come rapporto a due: per lui si tratta di una triade, dove il vero protagonista è il denaro. Pur dentro questi limiti strutturali, tuttavia, l’attrice co-protagonista della opera di Ki-Duk, Cho Min-soo, è all’altezza del compito nell’interpretare il difficile personaggio di Mi-sun.
Eppure, la crescita psicologica dei personaggi è un po’ tirata via, in questo onirico rapporto tra madre e figlio ritrovato. Tutto è crudo, costantemente e freddamente crudo: lo stupro del figlio ai danni della genitrice – un Edipo moderno? Difficile crederlo! In Sofocle le ragioni dell’incesto, inconsapevole, c’erano eccome e non nascevano dalla violenza! - la brutalità di farle mangiare un pezzo di carne tagliatosi davanti a lei, per strapparle un rifiuto o per scovare un segnale che faccia di lei una mentitrice. Tutti crimini inaccettabili, esplorati tanto nell’iter pubblico quanto in quello privato di un’esistenza, quella di Kang-do, vuota su tutti i fronti. La mamma non demorde, però, e si fa accettare passando su tutto. È molto più alto il suo fine, molto più forte il suo dolore, molto più pungente l’onore infangato. La parabola del figliol prodigo è rovesciata, nella pellicola coreana, non serve a redimere quanto a colpire più a fondo.
Pieta non convince unanimemente, anche se ha un geniale colpo di scena finale da vero maestro. La violenza non è sempre drammaturgicamente necessaria e non nasce mai la domanda sul perché un figlio venga abbandonato da sua madre alla nascita, per ripresentarsi nella vita del mostruoso e crudelissimo trentenne, al fine di redimerlo. Lo redimerà? Mah! Nel redimere la sua cattiveria, legandolo a sé e liberandolo dall’impenetrabile scorza di anaffettività, colpirà nel segno e salverà così l’onore oltraggiato.
È l’apologia del denaro, in nome del quale ci si permette ogni tipo di ignominia, ma più perfido del Dio denaro è il sentimento di vendetta che vince sul denaro, perché nasce dentro il cuore di una madre addolorata. Dunque, è il sentimento materno in scena nel film, il legame più forte in assoluto, che attraverso morte e dolore trova la sua giustizia. L’idea è espressa in modo originale, tutto sommato, con immagini crude e a volte gratuite, però. Certamente, il montaggio analogico risulta sapiente e raffinato: il coniglio preso come “acconto”, il pennuto morto offerto dalla “mamma”, l’anguilla che si contorce, la lisca di pesce inquadrata subito dopo il suicidio iniziale, i resti di una misteriosa carogna in casa di Kang-do. Infine, uno dei meriti del regista è stato di aver dimostrato come si possa fare un film di qualità, con pochi soldi e pochi personaggi.
Margherita Lamesta