La pellicola d’esordio del cinquantunenne londinese Simon Curtis, dopo 20 anni di carriera televisiva, è stata ingiustamente accolta con freddezza dalla critica anglofona. D’accordo, la materia è difficilissima e infatti se ne parla dal punto di vista privato e circoscritto di Colin Clark, quando, nel 1956, era alla sua prima esperienza cinematografica con il ruolo di terzo assistente alla regia. Basato sui due diari scritti da Clark, nel 1956 - The Prince e The Showgirl and Me - ma pubblicati solo nel 1995, ecco un film che non desidera minimamente scalfire la leggenda né sporcala con pacchiani cliché. Lo stesso rispetto provato da Clark per la donna più desiderata del mondo, che ha dilazionato l’uscita dei diari di quasi quarant’anni, si avverte nel tocco registico molto misurato e niente affatto pretenzioso.
Una Marylin vista secondo la pagliuzza di un solo, particolare momento privato ma anche professionale, che non trascina all’interno alcun elemento al di fuori di quel preciso momento storico. Luci ed ombre sì ma relative solo a una settimana di lavoro, quella pertinente alle riprese del film Il principe e la ballerina diretto e interpretato, accanto alla Monroe, da sir Laurence Olivier. Certamente due leggende al confronto. La carica sensuale della bionda divina non risparmia nessuno e Olivier l’ama e l’odia al tempo stesso. Il giovane Clark resta inevitabilmente intrappolato dalla speciale rete fatta di fragilità e miele, che solo Marylin possedeva naturalmente.
A soli trent’anni, una donna consumata da un male di vivere inarrestabile, perennemente inconsapevole della sua carica di talenti, tanto da non riuscire mai a metabolizzare i tanti complimenti che chiunque le ruotasse attorno le lanciava addosso. La pellicola è anche portatrice di un’ebbrezza di eleganza, talento e divismo tipici del mondo del cinema di quegli anni. Il cast dà prova mirabile di ogni ruolo, partendo dall’immenso Kenneth Branagh per finire ad una meravigliosa Judi Dench nei panni di Sybil Thorndike. Forse meno riuscito il tentativo di dar vita alla divina Vivien Leigh da parte di una Julia Ormond, che svolge il compitino senza eccellere.
Naturalmente a Michelle Williams è toccato il compito più arduo. Come ricreare quel misto di candore e sensualità, fragilità e malinconia, istinto e solitudine, carisma e impenetrabilità che contraddistinguevano la Monroe? Nonostante l’accurato lavoro dell’interprete sulla gestualità e sulla camminata di Marylin – da questo punto di vista il risultato non è del tutto apprezzabile, quanto meccanico e freddo - quel che si apprezza maggiormente invece è l’aria e il profumo della Monroe ricreato e fatto rivivere dalla Williams. È di più di un’interpretazione fedele, perché fedele non lo è affatto; è profonda, mira all’essenza di Marylin, è semplice, non la imita, perché non si può e non si deve imitare l’inimitabile.
È un film molto british nell’animo questo di Curtis e, grazie ad uno script brillante, tanto divertente quanto drammatico nel mostrarci una Monroe sconosciuta agli occhi dei più, assieme a Adrian Hodges, responsabile dell’adattamento cinematografico, il regista è riuscito a mostrare uno spaccato convincente di quella Marilyn tante volte raccontata ma forse mai centrata veramente.
Margherita Lamesta