Cosa accadde negli animi l’indomani del maggio ‘68? E per indomani il maestro francese, Olivier Assayas, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2012, intende quello immediatamente dopo, datato ’71.
Apres mai è una pellicola di pregio, l’affresco di un mondo che restituisce l’eco degli eventi cruenti del 68 e li sublima attraverso l’arte. È un quadro riferito allo spirito adolescenziale, venato dalla melanconia dell’artista e di chi vuole cambiare il mondo. È, dunque, totalmente lontano dal quadro superficiale e per nulla impegnato, quale appare la generazione adolescente d’oggi - o almeno questo è quel che di loro si riporta.
Agli inizi degli anni settanta, il cinema, come ogni forma d’arte, aveva un valore dialettico, non meramente informativo – prerogativa deontologica del giornalismo, a detta dello stesso autore. Era il veicolo d’espressione dei contrasti, delle contraddizioni, spesso aspre, che non doveva appianare o annullare ma riportare allo spettatore a scopo di riflessione. Ognuno, poi, coglieva quei semi a proprio modo. Ecco perché il film del cineasta francese possiamo definirlo un affresco. È chiaro che toccare un periodo così ingombrante storicamente, nel bene e nel male, porta in sé il rischio di una caricatura o comunque di una distorsione, se non dei fatti, di un certo spirito, ragion per cui è difficile avvicinarsi a quel momento, specie dopo gli eventi storici che si sono avuti, nei quarant’anni trascorsi da allora: la perestrojka, la caduta del muro, la guerra del golfo….etc…
Il regista francese, però, reduce da un’esperienza di vita personale – benché appena adolescente allora - e dopo aver già girato un film sullo stesso argomento, nel ’94, L’eau foide, ha acquisito gli strumenti per una visione più vicina ad un affresco che a una dura denuncia. Restituisce la complessità e la spontaneità di quegli eventi, senza forzarli o violentarli nel riporto, affinché siano utili ad un reveil per chi deve costruirsi un futuro o è ancora in tempo per cambiarne uno già segnato. Assayas scommette su questo e vince, non solo nella sceneggiatura ma per il lavoro nel suo complesso, in verità.
Gilles-Clement Metayer è un artista, vive nel suo immaginario ed è lì che si alimenta. Lo dice apertamente nel film, rivelando il suo punto di vista ma anche il suo limite. Si trova trascinato nei tumulti dell’epoca, non ne è il protagonista, non potrebbe esserlo! Deve sfuggire, non può portare il peso di eventi sì concreti e complessi. L’arte gli consente la comodità di planare al di sopra della realtà, liberandosi del suo grigiore ma gli apre anche chiavi di lettura più sofisticate e sconosciute ai più, che affinano menti e coscienze proprie ed altrui. È naturale che si tratti di uno sfacciato privilegio e il figlio di un produttore, che “fa’ il cinema”, quale è Assayas, non ha gli strumenti per interpretare certi eventi visti con gli occhi del proletariato.
il regista rifiuta la critica di non aver presentato nel film un solo personaggio che fosse il figlio di un operaio. Come poteva farlo? E come può capire una simile critica? Il figlio dell’operaio non frequentava il liceo – nemmeno il tecnico, in verità – dunque, era compito dei liceali, dell’apparente middle class, in realtà dell’upper class (la figlia di un diplomatico non appartiene alla middle class), farsi carico del riscatto di una classe sociale, che non aveva piena consapevolezza della propria condizione né poteva averne. Non c’era mica la democrazia di internet, allora. L’informazione era appannaggio degli adulti - non solo! - di una ristretta cerchia di adulti. Resta irrisolto, né si può risolvere, tuttavia, il dilemma sul quanto l’utopia svegli le coscienze o conduca alle elucubrazioni mentali di chi, grazie a Dio, un reddito ce l’ha. Vero è che senza chi favorisca un processo di conoscenza, o conii nuovi mezzi di ricerca, o inventi nuove sintassi espressive, si chiudono gli occhi e si tappano le orecchie, annientando ogni germoglio di spirito critico. Perciò diventa una risposta personale il quanto queste fiammelle riflessive attecchiscano, o possano prosperare, dentro l’animo di ognuno.
Assayas è molto coerente nel suo lavoro. Entrambi i protagonisti seguiranno le vie dell’arte: uno, in modo isolato, con il disegno e la pittura, l’altro, con un cinema non sperimentale ma inteso come un’attività come un’altra - anche se, di fatto, non sarà mai un’attività come un’altra. Tutti e due lo faranno con gli occhi innamorati. Specie Gilles che nell’incendio finale del film, “finzione nella finzione”, non solo può far risorgere il suo amore perduto ma lancia un’inequivocabile metafora sul fuoco dell’utopia che brucia dentro e dalle cui ceneri spunta la renaissance. Morale: per un ideale vale sempre la pena di battersi!
Margherita Lamesta