Salvatore Giuliano, di Francesco Rosi, Orso d’argento a Berlino nel 1961, fu una pellicola ignorata in Italia. Il Leone d’Oro alla carriera, il grande cineasta lo riceve solo quest’anno, mentre i tedeschi gli avevano conferito, già nel 2008, l’Orso d’oro alla carriera. Ma la lista dei premi del giovanotto, prossimo alle novanta primavere, non si esaurisce qui: Leone d’oro nel 63 con Le mani sulla città e Palma d’oro nel 72 con Il caso Mattei, oltre ad una decina di David Donatello tra il ‘65 e il ’97, tre Nastri d’argento e una Nomination agli Oscar per Tre fratelli, nell’81. Questa è per summa capita la carriera di Francesco Rosi, questo è l’emblema di un cinema-inchiesta che ha fatto storia, dando “altissimi contributi alla storia del cinema italiano e mondiale, con il percorso di un uomo impegnato sul duplice fronte dell’invenzione creativa e della testimonianza civile” – per dirla con il Nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che di Rosi è amico sin dai tempi dell’Università. Ed ancora, Scorsese ha sottolineato il suo omaggio al cineasta italiano che “ha saputo esprimere la bellezza delle persone e della Terra d’origine, il sud Italia”, con tutto l’amore di chi sa scavare dentro, in modo rispettoso, con coraggio e intelligenza. “Una lezione di rigore e coerenza”, secondo le parole di Giuseppe Tornatore, visibilmente emozionato, mentre consegna il premio al Maestro, che ci tiene molto a sentirsi cittadino, a sentirsi parte integrante di un Paese, con tutta la complessità della sua storia.
A chi gli chiede se il cinema d’impegno civile sia finito, poi, egli risponde di no, perché crede nei suoi eredi, che identifica in Mario Martone, Giuseppe Tornatore, Marco Tullio Giordana, in quei registi che testimoniano la realtà, le difficoltà e le speranze del proprio Paese. Singolare è stata l’audacia del grande cineasta, nel rivelare verità oscure e scomode che nessuno aveva interesse a vedere né a rendere note: la connivenza tra mafia, brigantaggio, potere politico ed economico, che lo scandalo di Portella della Ginestra ha rivelato in Salvatore Giuliano, per esempio. Ne Il Caso Mattei, il regista si spinge ancora oltre. Egli elabora una strategia narrativa fatta d’intreccio sapiente tra inchiesta, intervista, reportage televisivo e ricostruzione filmica pura, al fine di sollecitare e porre domande. Il regista e gli sceneggiatori, lavorando con passione, devono entrare nella verità per offrire al pubblico un prodotto che metta lui al centro, perché è lui il vero protagonista della storia a cui assiste, grazie alle domande che la storia gli rivolge e gli suscita. La verità è dunque qualcosa da scoprire e capire grazie alla guida degli autori chiamati a narrare la realtà, al fine di scoprire la verità. Realtà e verità, dunque, non coincidono in Rosi ma è la prima ad essere in funzione della seconda. È questo il punto di vista del maestro ed è questa la sua filosofia cinematografica.
Fervidamente convinto della potenza delle immagini filmiche, Rosi non rinuncia a sognare ed esorta tutti a non farlo, perché è proprio dentro il sogno, secondo lui, che va cercata e riconosciuta la verità, intesa come verità che, sia pur onirica, appartiene alla vita e che solo il cinema può scorgere, con la potenza ed il valore delle immagini. Ecco che, secondo il maestro napoletano, gli ingredienti basilari per cimentarsi, ieri come oggi, sono i seguenti: lo spettacolo, la cultura, la verità, l’analisi acuta del momento storico messo in scena. Tutti questi elementi, però, sono da passare al setaccio della volontà d’espressione, unico e solo motivo trainante per tutti gli altri.
Margherita Lamesta