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di Marina Pinto
Nell’Inghilterra del XVI secolo la musica era coltivata quasi esclusivamente negli ambienti di corte. Se infatti escludiamo le poche tracce di musica popolare e quelle, più numerose, di musica religiosa degli austeri ambienti chiesastici anglicani, troviamo memoria di composizioni vocali e strumentali prettamente legate alle figure aristocratiche.
I reali inglesi furono nobili estimatori di musica, e ad essere coltivata era soprattutto la pratica strumentale, dato l’amore per gli strumenti musicali e la dedizione con cui tutti vi si dedicavano, dai costruttori agli esecutori fino ai semplici ammiratori di quegli oggetti, che erano dei veri gioielli e di ebanisteria con intarsi preziosi di pietre dure o delicati affreschi che ne decoravano il fronte .
Gli strumenti musicali erano i veri protagonisti della musica inglese, e come tali essi passarono dalla semplice funzione di accompagnamento a quella solista. Per la crescente importanza che assunsero durante il XVI secolo, gli strumenti erano continuamente perfezionati, e fu proprio allora che si arrivò alla definizione di un nuovo, piccolo e maneggevole strumento ad arco, il violino, e di un raffinato e carezzevole strumento a tastiera, il virginale, uno strumento a tastiera con corde pizzicate che mantenne per diverso tempo la priorità assoluta fra tutti gli strumenti esistenti (liuti, arpe, flauti, clavicembali).
Simile a una piccola spinetta rettangolare che si poteva posare su un tavolo, il virginale produceva un suono dolce e delicato che si distingueva e bene si adattava all’ambiente dorato cui apparteneva. Sul finire del Cinquecento, ed anche successivamente, col termine virginale furono anche indicati, genericamente, tutti gli strumenti a tastiera a corde pizzicate, mentre una distinzione tra virginale e harpsichord (nome inglese del clavicembalo) fu nettamente stabilita solo nel XVIII sec. Un altro nome con cui è denominato stesso strumento è muselar - o muselaar - di derivazione fiamminga, o anche spinetta, di chiara origine italiana.
L’originalità del virginale è prima di tutto nelle sue dimensioni ridotte e nel fatto che ad ogni tasto corrisponde una sola corda, e poi per la disposizione della tastiera, che è poco estesa e che si trova non al centro della parte frontale – come nel clavicembalo – ma spostata verso sinistra o verso destra.
L’origine del termine “virginale” non è chiaro, ma la leggenda racconta che esso sia stato così chiamato in omaggio alla regina Elisabetta I la vergine, cui già i coloni inglesi avevano dedicato in America lo stato della Virginia. Ma lo strumento probabilmente esisteva già prima del tempo di Elisabetta, e forse era così chiamato in quanto particolarmente adatto all’educazione musicale delle fanciulle. Durante il regno di Elisabetta fiorì in Inghilterra una grande scuola di "virginalisti", ossia musicisti che composero per questo strumento dal suono lieve e raffinato, particolarmente adatto alle musiche profane di carattere gentile e scherzoso o anche intimo e mesto, coltivato in Inghilterra da gentiluomini e dame di alto lignaggio e levatura culturale.
Fra i maggiori virginalisti del tempo vi fu William Byrd (1543-1623), musicista esperto e completo, che si dedicò anche alla polifonia e che fu autore della prima musica sacra della Chiesa anglicana. Byrd fu organista del Duomo di Lincoln e della Cappella reale a Londra dal 1572, nonostante fosse cattolico; egli fu talmente apprezzato che ebbe il monopolio – su autorizzazione reale – dell’editoria musicale inglese del tempo. La brillantezza della sua scrittura emerge sia nell’opera vocale (dove eccelse) ma anche in quella strumentale.
Byrd può essere considerato il compositore inglese più importante del 1500: come tutti i virginalisti inglesi fu uomo assai colto, specie nelle questioni musicali, e in lui non mancavano garbo e misura quasi distaccati che gli permisero di dedicarsi con voluta e cosciente sapienza alle composizioni musicali di genere sacro e profano. Egli infatti scrisse un centinaio di pezzi per virginale e, per la prima volta nella storia della musica, brani da camera per ensamble di viole e circa 200 brani sacri su testo latino, superando in questo genere su tutti i suoi contemporanei. L’estetica contrappuntistica di Byrd è tipicamente fiamminga, anche se da lontano ammicca all’imminente barocco italiano.
Più travagliata fu la carriera di John Dowland (1562-1626), per il quale l’essere cattolico in un paese anglicano rappresentò invece un forte ostacolo, tanto che la sua richiesta di un incarico presso la corte di Elisabetta nel 1594 fu respinta proprio per questo.
Dopo alcune peregrinazioni in Germania e in Italia, Dowland tornò in Inghilterra, e, per cercare una sistemazione stabile presso la corte, abiurò il cattolicesimo, ma non ne ebbe alcun vantaggio (almeno nell’immediato); dovette infatti attendere fino al 1612 per farsi apprezzare, allorquando ottenne un posto di liutista e virginalista tra i “King’s Musicians” alla corte londinese. La sua bravura si fece riconoscere presto, tanto che di lui si menzionava il “celeste tocco che rapiva i sensi umani”, come ebbe a dire un poeta suo contemporaneo.
La sua frequentazioni con gli altri paesi europei gli valse la fama di gran conoscitore di forme musicali, e così il nome di molte danze del tempo come la ciaccona, la pavana, la gagliarda e la sarabanda rimase in seguito a indicare particolari composizioni musicali che lui ben conosceva e proponeva, ormai slegate dalle danze che erano cadute in disuso. Il suo nome rimane legato alle raccolte di Songs (quattro volumi) intitolate “Songes or Ayres”, quella chiamata “A Pilgrimes Solace” più numerosi salmi e pezzi per liuto
Successivamente – nel XVII secolo - il re Carlo II volle emulare lo sfarzo del cugino francese Luigi XIV, e istituì nella sua corte un’orchestra stabile con 24 violini. “Composer for the violins” (compositore per violini) fu nominato, a soli 18 anni, Henry Purcell (1659-1695), definito il compositore più illustre di tutta l’Inghilterra e uno dei maggiori del seicento europeo.
Purcell fu musicista alla corte dei re inglesi, compose musiche celebrative per le più importanti diverse ricorrenze e occasioni (incoronazioni, matrimoni, compleanni), e fu anch’egli virginalista ed autore di musiche di scena che accompagnavano tragedie e commedie (alcune delle quali di William Shakespeare) e di una sola opera, “Dido and Aeneas”, del 1689, un’opera concepita al di fuori della cornice sfarzosa della corte, ma per un collegio di educande.
In quel periodo in cui trionfava il canto del melodramma italiano ed in Francia tutti ammiravano le tragedie-lirique di Lully, in Inghilterra la predilezione musicale si orientò invece verso un tipo di spettacolo dove erano presenti parti di prosa e di musica, perché gli inglesi non mostrarono simpatia per l’opera interamente cantata.
L’arrivo a Londra del grande musicista tedesco Georg Friedrich Handel (1685-1759) portò parte del pubblico inglese ad apprezzare le sue opere di stampo italiano (“Il Pastor fido”, “Giulio Cesare”, “Tamerlano” “Orlando”, “Alcina”), ma il loro successo fu alterno.
Furono soprattutto le composizioni orchestrali come la “Music for the Royal Fireworks” (Musica per i reali fuochi d’artificio) e la “Water Music” (Musica sull’acqua), composta per le regate del re e della sua corte sul Tamigi, ad accrescere moltissimo la sua fama.
La musica di Handel fu grande in Inghilterra e nel mondo di allora, ma il suo lavoro nel campo dell’opera fu ostacolato da rivalità nate nell’ambiente di corte, e la sua posizione di compositore operistico ebbe sempre una posizione difficile all’interno degli ambienti musicali inglesi.
Deposte allora le armi del teatro d’opera Handel si dedicò con successo alla composizione di Oratori in lingua inglese, quasi tutti di soggetto biblico: “Saul”, “Salomon”, “Susanna”, “Joshua”, “Jephte”, “Judah Maccabeus”, sono i titoli dei suoi oratori e i nomi dei personaggi che vi campeggiano da protagonisti assoluti, in uno spettacolo senza sfarzo di scene e costumi (così come è nella concezione dell’oratorio) ma portatori delle loro passioni e storie umane illuminate da folgoranti interventi divini.
Handel si rivolse a tutto il pubblico inglese - che amava ed apprezzava questi soggetti - con un linguaggio adeguato e in una lingua accessibile,: attraverso gli oratori egli fece della Bibbia una lettura quotidiana, e così si fece strada trovando la sua dimensione nel mondo della musica di allora. Ispirandosi al Vecchio e al Nuovo Testamento la musica dei suoi oratori si fa redentrice e messaggera della parola del Cristo, infine celebrata nell’oratorio “Il Messia” (1741), il più celebre e più amato per la grandiosità e la potenza espressiva soprattutto dei brani corali - dove la maestria di Handel si evidenzia - e che ha una grande imponenza costruttiva; il compito del coro va dal semplice commento all’azione che si va svolgendo ad una espressione musicale completa con lunghi brani articolati in varie parti, pezzi di contrappunto e fughe di rara capacità compositiva.
Roma, 6 agosto 2008
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