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Anno 7 Numero 348

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Giuseppe Verdi: “Don Carlo” 

 

di Marina Pinto

Reduce dal successo della nuova stagione del Teatro alla Scala di Milano, raccontiamo oggi la storia del “Don Carlo”, un’opera tragica del grande maestro Verdi (1813-1901) nata sull’immagine dolorosa ed allo stesso tempo consolatoria del Manzoni, che fu un importante punto di riferimento per il nostro compositore.

Negli anni ’60, appena di ritorno da Pietroburgo, Verdi compì un viaggio in Spagna, terra che fece nascere in lui una ispirazione particolarmente fosca assai simile a quella della sua precedente opera (la “Forza del destino”). Infatti nel “Don Carlo” Verdi ripropone lo stesso quadro ambientale e storico, la Spagna del XVI secolo, con una musica assai annerita nei suoi timbri orchestrali ed una evidente trasformazione delle linee melodiche, che appaiono come un declamato febbrile ed impaziente, tanto che ascoltando quest’opera ci si chiede: dov’è finita la cantabilità verdiana? 
Ma tutto ha un senso nelle opere del maestro di Busseto, e difatti gli impasti strumentali così modificati sono lo sfondo più giusto per l’atmosfera di quest’opera, che si presenta buia e tetra, con una storia tragica e tenebrosa, dove gli unici chiarori sono le equivoche sensazioni di un trionfo esteriore forzato, che pesa sull’anima come un cattivo presagio.
I cuori dei personaggi di quest’opera sono infetti, malati, ma sempre ingenui e sofferenti, essi anelano alla libertà, alla grazia, alla pace dello spirito ed alla solidarietà umana, tutti motivi che risvegliano il desiderio di una vita oltre la morte, come ascoltiamo nell’addio di Rodrigo, il marchese di Posa, ucciso per ordine dell’Inquisitore, e nel duetto finale fra il protagonista, Don Carlo, ed Elisabetta, un canto che è la vera espressione dell’infermità e del dolore per un male incurabile che non ha via di ritorno.
Il dolore è il vero ed assoluto centro del dramma: l’amore di Elisabetta per il figliastro è un sentimento intessuto di malinconia, di ricordi e nostalgia per la sua Francia lontana e perduta, così come triste e sconsolato si presenta quello del protagonista Don Carlo. Verdi ha voluto questo amore colpevole, malato, irresoluto, che tortura di rimorsi Elisabetta ed avvilisce ed indebolisce Carlo; aggiungiamo a questo la cupa tragedia di Filippo II, che è pregna di un senso di oppressione a causa dell’oscurantismo dell’Inquisizione, tanto che egli sacrifica all’assolutismo monarchico gli affetti più cari che ha, ma dai quali si vede tradito ed escluso.

Tutta l’opera si svolge in un clima di vera sofferenza interiore, fino all’ultima pagina – il duetto Carlo-Elisabetta – che conferma in pieno le analogie di estrazione manzoniana: i due amanti non trovano alla fine dell’opera la sperata unione, essa viene rimandata al domani dopo la morte (in questo senso c’è un accostamento anche con Wagner, il cui principio della catarsi viene ripetutamente evocato in molti suoi lavori teatrali).
La fede nel mondo dell’aldilà è l’unico germoglio sano della vicenda, ciò che invece si annebbia e si scurisce è la problematica esistenziale dell’uomo, che qui è messa a confronto con l’altezza dei cieli che l’anima anela di raggiungere, attraverso accenti di malattia crepuscolare interrotti da slanci vitali colmi di passione.
Questo forte contrasto di intenti e di pensieri viene addirittura caratterizzato a livello politico: “Don Carlo” pretende che tale discrasia sia oggetto di uno sforzo di analisi mai affrontato sia da Verdi che da nessun altro prima di lui, ed a questo proposito il dibattito del protagonista con l’Inquisitore ha la corposità animale di uno scontro della preistoria, e l’uomo cade giù nella fossa dove non può entrare la luce dei sogni, così che non v’è alcun rapporto possibile fra la vita interiore di un uomo e i suoi impegni sociali, a qualsiasi livello essi siano: Don Carlo è un eroe impotente che non può nulla e non avrà nulla, un nobile perdente, un uomo sconfitto che soffre indicibilmente.

L’opera fu tratta da un dramma di Schiller, ed ebbe diverse versioni. La prima rappresentazione avvenne all’Opera di Parigi, nel 1867, ed era di vaste proporzioni, come da consuetudine francese, divisa in ben cinque atti con diverse parti destinate al balletto. 
Trascorsi sedici anni Verdi ne fece un’attenta revisione che comportò la soppressione dell’intero primo atto – dove sono esposti gli antefatti del dramma – ed altre parti del terzo, compresi i balletti. Questa nuova edizione in quattro atti fu proposta alla Scala di Milano nel 1884, e fu giudicata da pubblico e critica come una delle più drammatiche dell’autore.
Ci fu ancora una terza presentazione del lavoro - la definitiva - in cui Verdi ripristinò il primo atto mantenendo intatte tutte le altre modifiche della seconda versione (quindi cinque atti senza parti di balletto) ed anche così l’opera fu bene accolta dal pubblico del Teatro Comunale di Modena nel 1886.

La vicenda: sullo sfondo della Spagna della Controriforma, sotto il potere assoluto di Filippo II, si svolge il dramma dell’Infante Don Carlo, che, promesso sposo di Elisabetta di Valois – figlia del re di Francia Enrico II – si vede sottrarre la fidanzata, destinata per motivi politici ad andare sposa proprio a suo padre.
Don Carlo è disperato per la delusione che ha infranto ogni sua speranza, ed egli cerca di ritrovare la pace e la serenità perdute nel convento di San Giusto, a Madrid, dove morì il suo avo Carlo V. In quel luogo viene raggiunto dall’amico Rodrigo, marchese di Posa, che lo incita a recarsi nelle Fiandre, dove il popolo soffre per la tirannia di Filippo ed attende un liberatore.
Carlo esita a lungo prima di prendere una qualsiasi decisione in proposito: la sua indole è irrisoluta ed allo stesso tempo tortuosa, egli si è emarginato dalla vita di corte, pensa alla sua sposa mancata, ed inoltre non sa che la principessa Eboli, dama della regina, lo ama da tempo.

Carlo riesce ad avvicinare Elisabetta, e, nel corso di un drammatico colloquio, cerca di risvegliare il lei l’affetto di un tempo, ora che da fidanzata è divenuta sua matrigna. Ma il suo tentativo è inutile, poiché la regina, pur vivamente commossa, lo allontana, facendogli intendere l’impossibilità da parte sua di assecondare quell’irragionevole sentimento.
Il giovane vede svanire le sue speranze, ed allora decide di seguire il consiglio di Rodrigo ponendosi in testa di una spedizione per la liberazione delle Fiandre dal dominio spagnolo. Ma l’atto di ribellione non sfugge ai rigori dell’Inquisizione, Carlo viene incarcerato e destinato al supplizio; anche Rodrigo sarà colpito a morte, come responsabile della tentata cospirazione.
All’improvviso un’inaspettata sommossa popolare libera Carlo, che vuole andare nelle Fiandre per cercare di continuare ad affermare, con ogni mezzo, quegli ideali di libertà professati da Rodrigo fino alla morte, ma, prima di partire, vuole incontrare Elisabetta un’ultima volta.
Ella è nel chiostro del convento di San Giusto, raccolta in preghiera dinanzi al sepolcro di Carlo V (si ascolti l’aria di Elisabetta “Tu che le vanità conoscesti del mondo”); i due si incontrano in preda ad una profonda emozione, e finalmente si rivolgono struggenti parole d’amore. È un addio, ma i due vengono sorpresi da Filippo e dall’Inquisitore in persona, venuto a reclamare la punizione per il ribelle. Carlo cerca di difendersi ed indietreggia verso la tomba dell’avo, quando, fra lo sgomento generale, appare, in un bagliore irreale, lo stesso Carlo V in veste di frate, il quale trascina con sé il principe stravolto.

Roma, 10 dicembre 2008

 

 

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