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Anno 7 Numero 347

Direttore Responsabile Guido Donati

 

Il teatro francese nel 1600: balletti, soggetti pastorali e macchine sceniche 

 

di Marina Pinto


Il teatro barocco che si sviluppò in Francia era caratterizzato soprattutto dai balletti, cui spetta di diritto una menzione particolare: la musica francese fu sempre in stretto rapporto con la danza, naturalmente parliamo della danza di scena – il “Ballet de cour”, come veniva chiamato all’epoca – un elemento cui la musica, teatrale o no, è rimasta fedele fino ad oggi. 
I passi di danza del “Ballet de cour” erano regolati esattamente passo dopo passo, vi erano un numero facoltativo di entrate (“entrées”) recitate come pantomime, e versi esplicativi (“récits”) parlati o cantati. Complessi corali per quattro o cinque voci o canzoni solistiche con accompagnamento strumentale di un insieme di archi accompagnavano le varie scene.
Che il balletto fosse uno stretto fatto di corte è confermato dal fatto che esso veniva danzato non solo da ballerini professionisti ma anche dagli stessi cortigiani, e poi c’era il “Grand ballet” finale che sempre concludeva gli spettacoli con la partecipazione addirittura della famiglia reale.
La musica dei balletti è giunta fino a noi in forma frammentaria. Poiché essa era limitata all’uso di corte, pochissimo fu quello che venne stampato: ad essere pubblicata poi fu solo quella parte che aveva un più vasto richiamo. La musica strumentale e vocale ebbe invece sorte migliore, e diversi brani di questo genere, anche di estese proporzioni, sono sopravvissuti anche solo in raccolte manoscritte.
Nel corso del XVII secolo questo tipo di spettacolo dedicato alla danza attraversò rapidamente diverse fasi, fino ad essere fuso con uno più fastoso ed imponente dove danza, canto, poesia e dramma erano insieme; tali spettacoli erano caratterizzati da particolarissimi effetti speciali che stupivano ed incantavano gli spettatori, facendone così un momento di altissima meraviglia e prodezza da parte di tutti coloro che si adoperavano alla sua riuscita. 
In sé stesso il “ballet de cour” non avrebbe mai portato alla nascita dell’opera francese se non fosse stato per l’opera italiana, alla quale i musicisti francesi guardavano con acuto interesse (una visita in Francia del musicista Giulio Caccini fu il primo contatto con il genere). In seguito furono l’accorta politica ed il raffinato gusto personale del cardinale Mazzarino a provocare le frequenti visite di artisti italiani presso la corte francese (il cardinale era italiano di nascita, e la passione per l’opera si era impadronita di lui fin dalla giovinezza), e così ecco una trasformazione del teatro, anche se i primi esperimenti francesi di accostamento con il melodramma furono deboli e confusi.
I soggetti drammatici erano di tipo storico-mitologico, attinti dalla letteratura pastorale: la preferenza era per le storie d’amore spigolate dai poemi di Ariosto e Tasso, dai romanzi del tempo e dalla mitologia classica, e tale gusto si estese a tutti i generi teatrali, dal più impegnato al più popolare, nei teatri di corte ed in quelli pubblici. L’espressione lirica del sentimento, lieto o dolente, divenne la nota dominante di moltissimi drammi. Più di ogni altro personaggio comparve sulla scena Orfeo con la sua lira e con il suo canto, eccezionale e magico mezzo di persuasione; presto gli artisti sfruttarono le possibilità drammatiche e patetiche del suo mito, Orfeo sembrava quasi essere il “ponte” fra terra e cielo, attraverso il suo canto egli poteva comunicare con gli dei, rimproverarli addirittura, o supplicarli di aiutarlo.
I drammi pastorali predilessero anche soggetti concernenti la magia, la metamorfosi ed il meraviglioso in tutte le sue più fantasiose espressioni: infatti non c’è miglior modo di suscitare la tensione o la commozione che attraverso gli incantesimi intonati da una Circe o i seducenti canti delle sirene. Si pensò poi che se questi magici effetti musicali fossero rinvigoriti anche da una illusione visiva l’esito totale del dramma d’amore sarebbe risultato ancor più trascinante.
Naturalmente il pubblico esigeva di trasalire e di stupirsi, quella sola era l’emozione che cercava, e a questo scopo furono inventate complicatissime macchine sceniche debitamente funzionanti: ed allora scenografi e macchinisti non chiedevano di meglio che di sfoggiare le loro nuove invenzioni e di dimostrare la loro crescente maestria tecnica, ed i teatri di Parigi furono rapidamente trasformati per essere in grado di ospitare ed utilizzare queste straordinarie macchine: per far questo l’area attorno alla scena dovette essere notevolmente ampliata, cosicché finte nuvole e voli celesti potessero trovare il loro spazio, e così fu. 
La funzione scenica delle macchine e le scenografie tanto appariscenti quanto – a volte – pacchiane ed esagerate, erano così importanti nella messa in scena di un qualsiasi lavoro che il poeta e librettista Pierre Corneille (1606-1684) - che fu anche scenografo e macchinista - dichiarò che la musica non aveva alcuna funzione drammatica, ma solo sussidiaria ed ornamentale, e a tal proposito leggiamo: “Ho impiegato la musica solo per soddisfare l’orecchio, mentre gli occhi sono impegnati a guardare i macchinari…”
La musica invece aveva una parte importantissima in questi elaborati spettacoli, ed infatti le sue virtù teatrali furono presto captate e sfruttate al massimo. Dapprima essa interveniva solo a tratti: accompagnava l’arrivo degli dei in terra o i balletti destinati ad adornare la scena drammatica, o anche più semplicemente essa conferiva rilievo ai prologhi pomposi in cui divinità o personaggi allegorici prodigavano elaborati complimenti alla Francia o al suo re, come vediamo ne “Le mariage de Bacchus et d’Ariane” (1762) di Jean Donneau de Visè.
Il prologo di Boyer per lo spettacolo “La Feste de Venus” (1669) è anche più ambizioso: le soavi melodie delle cornamuse e dei flauti dolci evocano l’aura pastorale cedendo spazio gradatamente ai violini che suonano i ritornelli. Il loro concerto è interrotto dalle trombe che annunciano l’approssimarsi della Vittoria, ed infine la scena si dissolve sulle danze degli schiavi d’amore accompagnate dagli archi.
Questa atmosfera festosa è tipica di molti drammi pastorali, in cui i pastori ed i loro amori – esseri umani o divinità che siano – recitano, ballano, cantano, amano e piangono.
Poco si sa degli autori della musica vocale e strumentale di questi drammi; è probabile che, come nel balletto, diversi compositori contribuissero all’una e all’altra delle forme, forse si utilizzava anche della musica preesistente tolta di peso da un altro contesto per quel particolare spettacolo cui serviva. Questa prassi non era rara, e non deve sembrare nemmeno tanto incoerente, dato che il contenuto di questi lavori è spesso di una irritante uniformità, e qualche volta all’interno di uno stesso spettacolo si nota anche la totale mancanza di potere coesivo, poiché la forma elastica di questi spettacoli consentiva agli elementi eterogenei della commedia, della farsa, della pastorale, della tragedia e del teatro delle macchine di coesistere ostentatamente e goffamente nello stesso spettacolo.
Attraverso questi drammi il grande pubblico si abituò all’idea ed alla presenza della musica a teatro, e personaggi di spicco e rilievo storico come Lully e compagni compresero la potenza scenica della musica e la forza emotiva dello spettacolo, il quale poté diventare fonte di meraviglia per lo spettatore anche se a volte privo del tutto o quasi di contenuto drammatico. Solo la perfetta integrazione del significato drammatico di parola e musica assieme e la tale unitaria concezione dell’azione teatrale avrebbe consentito che si ponessero le reali premesse all’opera, e questo è un merito tutto italiano.

Roma, 3 dicembre 2008

 

 

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