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Anno 7 Numero 317

Direttore Responsabile Guido Donati

 

I dimenticati 

 

di Marina Pinto

Anerio, Sammartini, Luchesi, Anfossi, Guglielmi, Traetta, Duni, Araja, Mira, Manfredini, Galuppi, Geminiani, Ristori, Landi, Lotti, Paradisi, Pepusch, Sarti, Sacchini… questi nomi vi dicono qualcosa? No? 
Escludendo subito che si tratti della formazione di una squadra di calcio (!), vi diciamo però che sono nomi importanti, o per meglio dire appartengono a musicisti importanti, molto più di quanto si pensi, artisti alla stregua di Bach, Beethoven, Mozart… Eppure sono figure sfumate nel nulla (o quasi), ed anche le loro musiche sono finite nel dimenticatoio, o magari fra le note confuse di qualche jingle pubblicitario, qualche stralcio di colonna sonora, chissà… Perché questa trascuratezza? Perché mai tante note che nel passato hanno risuonato in chiese, palazzi, in tanti teatri e corti europee, che sono state oggetto di ammirazione e che hanno suscitato gioia o commozione, sono state praticamente cancellate dalla storia della musica? 
La risposta non la sappiamo, ma vale la pena di sapere chi sono questi musicisti attualmente risucchiati dall’oblio, quali erano i loro pensieri, in poche parole il perché della loro esistenza e dei loro massaggi musicali, che, badate bene, ci sono, e, ad ascoltarli bene, sono anche assai sonori.

Iniziamo da Giovanni Francesco Anerio, compositore e musicista del tardo Rinascimento e membro della Scuola Romana fondata dal Palestrina (del quale fu allievo), oggi assai poco ricordato se non nell’ambito degli studi specifici sullo stile della musica d’inizio ‘600. 
Anerio fu fanciullo cantore nella Basilica di San Pietro a Roma, lavorò successivamente alla corte di Sigismondo di Polonia per poi tornare a Roma e diventare sacerdote. Quello di cui siamo certi è che fu un musicista importante ed un artista assai impegnato, ebbe rapporti di molto peso con i padri Gesuiti, con la Congregazione Romana di San Filippo Neri e con i Padri Filippini, per i quali scrisse il volume “Il teatro armonico e spirituale” pubblicato nel 1619, che segnò un momento decisivo nello sviluppo dell’oratorio in volgare. Fu inoltre fecondo compositore di musica sacra con non meno di 320 brani, più madrigali, canzonette e saggi di musica strumentale, come il “Libro delle gagliarde intavolate per sonare nel cembalo e liuto”. 
Ma oggi cosa sappiamo di lui? Poco, solo delle semplici notizie biografiche, mentre invece il suo contributo alla cultura musicale è stato molto importante, e sarebbe bene ricordarlo.

E ancor meno fortuna di lui (anche in vita) ebbe suo fratello, Felice Anerio, del quale le informazioni sulla vita e la musica si limitano a poche e noncuranti righe su qualche dizionario, e una tale negligenza non fa certo onore alla storia.

Passiamo a Stefano Landi, un artista italiano della scuola romana del periodo barocco oggi praticamente misconosciuto, del quale non ci sono ragguagli almeno fino al 1607, quando il suo nome compare per la prima volta negli archivi del Seminario Romano indicandolo come direttore delle musiche del Carnevale romano. Successivamente c’è una nota del 1611 che lo segnala come organista e cantante, e un’ultima indicazione è presente in un avviso datato 1631 della rappresentazione di una sua opera a Palazzo Barberini. 
Dato il periodo ed il luogo pensiamo che il Landi dividesse la sua vita fra la musica e la carriera ecclesiastica, ed infatti sappiamo anche che fu maestro di cappella nella chiesa romana di Santa Maria della Consolazione, per spostarsi poi a Venezia dove compose altra musica e pubblicò una raccolta di madrigali a cinque voci. Di più non ci è dato sapere (ma questo non è un buon motivo per dimenticarci di lui).

Incontriamo poi Antonio Lotti, un musicista attivo a Venezia all’inizio del ‘700, che oltre a dedicarsi alla composizione fu anche un fine insegnante fra i cui allievi possiamo annoverare anche Antonio Vivaldi (che però, buon per lui, non è stato dimenticato). La ragione dell’oblio in cui il Lotti è caduto è forse da imputare in parte anche a lui stesso, che, pur avendo frequentato gli ambienti musicali più importanti del suo tempo (la corte di Dresda, per esempio, dove nel 1719 incontrò il sommo Bach e dove ebbe contatti anche con Handel) non fu un musicista ambizioso, tanto che non si dimostrò mai troppo preoccupato di veder diffuse le sue composizioni, la cui pubblicazione, infatti, riguardò solo due madrigali. Insomma, il Lotti non sgomitò per avere il suo “posto al sole”, ed il risultato è che è finito nell’ombra.

Allo stesso modo possiamo ricordare Francesco Araja, del cui genio musicale si bearono gli zar di Russia all’inizio del XVIII secolo per ben 25 anni. La sua permanenza in Russia fu la più lunga in assoluto fra i tantissimi musicisti italiani che a quel tempo affollavano San Pietroburgo, ed a lui si devono pregevoli pagine di musica, oggi purtroppo quasi del tutto dimenticate. 
Come Araja, in Russia si recarono il violinista Pietro Mira, detto Petrillo, una personalità eclettica e di grande intelligenza passato alla storia come “il celebre favorito della zarina di Russia” (anche se tale favore durò poco, perché Caterina di Russia era una sovrana piuttosto capricciosa), Tommaso Ristori, compositore, maestro di cappella e direttore di una compagnia teatrale, suo figlio Giovanni Alberto, organista e compositore, e poi Vincenzo Manfredini e il veneziano Baldassarre Galuppi, detto il Buranello, che però restò poco tempo in terra di Russia a causa del suo carattere ribelle che non lo rese particolarmente simpatico alla zarina, che infatti gli preferì Giuseppe Sarti, che fu autore di arie da camere ed opere dalla chiara ispirazione metastasiana. 

Dello stesso periodo storico ricordiamo la figura e l’opera di Giovanni Battista Sammartini, un musicista milanese che per primo riformò e rinnovò il campo della musica strumentale creando lavori che ancora oggi cercano una giusta collocazione nella storia ed una corretta definizione stilistica. Un personaggio singolare, il Sammartini, le sue opere musicali – di cui abbiano notizia in un numero di 450 lavori circa, di cui però la maggior parte andata perduta – furono speciali nella forma ed intense nell’espressione, tanto che vennero apprezzate dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria, che nella sua Vienna di musicisti ne vedeva tanti.

Un altro illustre sconosciuto di quel tempo è Egidio Romualdo Duni, un musicista italiano autore di opere ed intermezzi (all’incirca una quarantina di lavori) contemporaneo del più celebre Pergolesi. La sua estraneità al mondo delle celebrità musicali italiane sta forse nel fatto che svolse il suo lavoro soprattutto in Francia, dove fece fortuna soprattutto grazie all'appoggio degli Enciclopedisti, i quali videro in lui il confutatore della tesi di Rousseau circa la non-musicabilità della lingua francese in favore di quella italiana. In effetti il Duni italiano è poco considerato, e l’unico riconoscimento che ha avuto è l’intitolazione a suo nome del conservatorio di Matera, sua città natale.

Sempre in Francia, ai tempi della regina Maria Antonietta, fu attivo Antonio Sacchini, un musicista fiorentino di nascita ma napoletano d’adozione, che fu celebrato ed ammirato da tutta la corte di Versailles. Le sue opere, già rappresentate con successo a Napoli, conquistarono in pieno le platee e le nobili orecchie dei reali francesi, tanto che per un po’ di anni egli fu il prediletto di Maria Antonietta. Accadde però che a Versailles giunse un giorno il musicista italiano Niccolò Piccinni (uno dei fortunati che è non finito nel dimenticatoio), il quale, a causa di antichi rancori verso il Sacchini, non esitò a sparlare del suo collega accusandolo di intrighi e disonestà varie, e tutto si scatenò contro di lui: all’improvviso Sacchini vide crollare il suo successo, ed anche l’imperatrice non lo considerò più come prima, quasi non degnandolo più nemmeno di uno sguardo. Il dolore e la delusione furono così forti per lui che persino la voglia di vivere lo abbandonò, e così, rifiutando il cibo e sentendosi sempre più depresso, si ammalò gravemente, morendo in solitudine dopo tre mesi di agonia.

Nello stesso periodo di fine secolo ritroviamo ancora altri personaggi: per primo incontriamo Pasquale Anfossi, un musicista che fu fra i principali protagonisti della scuola napoletana dell’opera buffa insieme ad altri due fra i dimenticati, ossia Pietro Guglielmi e Tommaso Traetta. In verità questi tre musicisti operarono con profitto e buona lena nella Napoli del tempo creando opere teatrali di gran gusto e grande allegria, tutti lavori garbati allora di gran moda e molto graditi al pubblico. 
L’Anfossi in particolare ebbe grandissimi riconoscimenti, le sue opere furono rappresentate nei maggiori teatri d’Europa ed in tutti – TUTTI - quelli italiani, cosi che il suo nome era conosciuto dappertutto, tanto che entrò in contatto con altri grandissimi artisti della musica, come Mozart, che ne riconobbe il genio e la peculiarità tanto da scrivere in una lettera al padre la frase “I miei nemici dicono che io voglio correggere l’opera di Anfossi”. 
Anche il Guglielmi fu uno dei maggiori rappresentanti della scuola napoletana settecentesca, nonché il portavoce della musica operistica italiana sul suolo inglese. Anche se il suo nome è oggi poco noto o appena menzionato nei libri di storia della musica – così come la sua opera, che non ha molti seguaci né è di grande diffusione – sappiamo che scrisse moltissima musica e tutta di eccellente qualità: nella sua produzione troviamo infatti ben 92 opere teatrali, 17 oratori, 12 lavori di genere sacro, una ventina di composizioni da camera, diverse Cantate, musiche d’occasione ed anche delle sinfonie. 
Ora, dati certi fatti inerenti la sua figura e la validità della sua opera, ci chiediamo: perché il Guglielmi è stato dimenticato? Forse la ragione sta nelle pieghe oscure del mondo della musica settecentesca, quando essa era quella preziosa e ricercata arte che dava da mangiare a molti e dilettava le orecchie di molti altri, ma che nello stesso tempo rappresentava un forte terreno di scontro fra gli artisti veri e i presunti tali, e il Guglielmi ne deve aver fatto le spese. 
Stessa storia - o stessa musica – per il Traetta, il cui nome, accompagnato da poche notizie biografiche, è appena ricordato nelle enciclopedie della musica. Eppure il Traetta fu un compositore importante dotato di un grande genio drammatico, e fu anche direttore del conservatorio di Venezia per ben due anni prima di trasferirsi in Russia per ricoprire il posto occupato dal Galuppi prima e dal Sarti poi, ma oggi le sue musiche compaiono soltanto in alcune antologie di arie da camera, mentre per quanto riguarda la sua personalità di artista le notizie si sono perse nel nulla.

E nella fitta schiera dei dimenticati di quel tempo (come vedete l’elenco è lungo) troviamo ancora il nome di Pietro Domenico Paradisi, chiamato Paradies, un personaggio disatteso dai melomani e dagli appassionati della musica barocca italiana, tanto che la sua figura e la personalità risultano nebulose e vaghe. Malgrado ciò la sua produzione musicale ha permesso a molti musicisti di apprendere le tecniche del clavicembalo e di godere di una musica raffinata e sobria come pochi altri compositori hanno generato.

Fra i più originali – e dimenticati - artisti del XVIII secolo c’è anche Johann Christoph Pepusch, un tedesco naturalizzato inglese che creò una delle più singolari opere di tutta la storia del melodramma, ovvero “The Beggar’s Opera”, una commedia satirica mirata a screditare l’opera italiana nei suoi costumi più eclatanti, con inoltre una feroce presa in giro della società aristocratica e borghese del tempo. Un lavoro rivoluzionario degno senz’altro di menzione e di ascolto, ma molto raramente rappresentato, ed il perché è un mistero.

Anche la figura di Francesco Saverio Geminiani è piuttosto trascurata ai nostri giorni, anzi, di lui si sente parlare molto poco. La storia difatti non gli rende affatto giustizia, perché in verità il Geminiani fu un musicista molto apprezzato che svolgeva molteplici attività, come comporre, suonare il violino da vero virtuoso ed essere contemporaneamente un valente insegnante ed un teorico, e dovunque si distingueva sempre ai massimi livelli, tanto che in Inghilterra svolse un’intensa attività concertistica che gli valse una fama pari a quella di Corelli e di Handel.

Ma il caso più eclatante del dimenticato più dimenticato di tutti, è quello di Andrea Luchesi, un musicista letteralmente scomparso dalle pagine della musica, ignorato dalla storia, scansato dai biografi, trascurato dagli storici e tralasciato impietosamente dai dizionari e dalle enciclopedie che trattano di musica, addirittura snobbato dalla sua stessa città natale (Motta di Livenza, in provincia di Treviso). In definitiva un distinto sconosciuto, un nome e basta, e la giustezza sulla sua bravura e la sua arte non è stata mai rivelata, in pratica è andata sotterrata con lui.
Ma la verità è tutt’altra, ed è ora che qualcuno la dica. A dispetto della sua odierna assenza dal mondo delle sette note, al suo tempo Luchesi fu molto stimato e considerato, tanto che, dopo aver lavorato a Venezia, giunse a Vienna, dove fu nominato Maestro della Cappella imperiale, carica che gli rimase a vita e a cui potevano ambire solo coloro che venivano considerati eccellenti compositori (e quindi lui lo era), e nel 1782 tale incarico fu suo anche a Bonn, dove fu anche insegnante (fra i suoi alunni ci fu addirittura Beethoven). 
Fu probabilmente allora che iniziò la famosa “razzia” musicale perpetrata ai suoi danni (azione per la quale la sua musica è tutt’oggi scomparsa), che iniziò con una serie di committenze di musiche di cui altri si appropriarono di sana pianta. Così accadde che molti lavori del Luchesi finirono impunemente fra le pagine di altri musicisti (come Sammartini, Sarti, Traetta ed anche il grande Haydn, nessuno fu esente da questo complotto), e lui non poté mai rivendicarne la paternità, dato che, avendone accettato la commissione, tali lavori erano diventati proprietà del committente, e, a quel tempo, i diritti d’autore erano ben lontani.
Le circostanze per le quali al Luchesi non è stato consentito di apparire sui libri di storia non sono ancora oggi conosciute, e, alla luce dei fatti, ci si chiede il perché, dato che le cronache del suo tempo e le ricostruzioni della sua stessa musica – che davvero non teme confronti né perplessità - lo pongono al vertice della bravura e lo collocano come figura eminente al pari – ma anche al di sopra - di molti musicisti coevi. 

In conclusione di quanto detto sarebbe giusto ed opportuno occuparci un po’ di più di questa musica del passato e cercare di scoprirne il valore e l’originalità, perché non è detto – e non è vero – che ciò che ascoltiamo oggi sia migliore di quello di ieri, e soprattutto perché ciò che musicalmente oggi ci emoziona non esisterebbe se qualcuno non ne avesse segnato le tracce ieri.

Roma, 8 maggio 2008

 

 

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