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Anno 7 Numero 339

Direttore Responsabile Guido Donati

 

I compositori del bel canto: Rossini, Bellini e Donizetti 

(prima parte)

 

di Marina Pinto

Dal 1810, l’anno della prima opera di Gioacchino Rossini, al 1848, quando morì Gaetano Donizetti, tre compositori dominarono l'opera italiana creando la vera e propria “Opera del bel canto”, che si contrappose nettamente alle maestose opere prodotte dagli altri compositori che li avevano preceduti. 
I tre furono: Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti.
Fino a quel momento il teatro musicale si era preoccupato del popolo tedesco soprattutto dal punti di cista spirituale, come per esempio nelle opere di Weber, o nel “Fidelio” di Beethoven, ma con l’avvento degli italiani tutto cambiò. Infatti niente di tutto ciò - per nobile che fosse – fu il soggetto delle opere dei compositori del bel canto, perché loro arte, divertente, sentimentale ed esibizionistica, non chiedeva al pubblico di riflettere ma solo di distrarsi e divertirsi, e per questo le loro opere ebbero un'enorme popolarità ed anche diverse critiche. “Per gli italiani” - deplorava Berlioz – “la musica è un piacere dei sensi e nient'altro. Per questa nobile espressione dello spirito non hanno, si può dire, più rispetto che per l'arte culinaria. Vogliono uno spartito che, come un piatto di maccheroni, possa essere assimilato immediatamente senza doverci tanto pensare sopra, addirittura senza badarci”. 
Nelle opere belcantistiche erano i cantanti ed il canto ad avere la massima importanza, ed il canto stesso mirava apertamente a diventare e a dare spettacolo. Tale concetto era legato alla tradizione settecentesca dell’opera buffa, pur non trascurando alcuni valori reali dell’uomo, come il senso della religione, la giustizia, la fedeltà, l’onestà (vedi i lavori rossiniani “Mosè” o “Guglielmo Tell”). In seguito ci furono le opere spettacolari di Meyerbeer, le opere psicologiche di Verdi e le tragedie in musica di Wagner che scacciarono dal palcoscenico le opere del bel canto, anche se alcune rimasero sempre nel circuito internazionale. A quel tempo in Italia si aveva modo di ascoltare occasionalmente un'altra mezza dozzina di opere, ma considerando che Rossini ne compose trentanove, Donizetti una settantina e Bellini undici, non è poi molto.
Ma è importante precisare che questo tipo di teatro musicale, pur trattenendone la tradizione, si differenziava notevolmente da quello settecentesco, dove i cantanti evirati – che comunque Rossini amava molto – erano non solo interpreti di arie di bravura ma divi a pieno titolo, con tutte le questioni che la cosa comportava. Il bel canto della prima metà dell’’800 esigeva – ed esige - tenori, contralti, baritoni e soprani di coloritura, delle voci particolari, uniche, come quella della Malibran, di Giuditta Pasta, del tenore Rubini e del basso Luigi Lablache, nessun cantante di oggi le possiede. Quelle opere obbedivano in gran parte ad una formula che non esiste più, venivano sfornate in fretta e si basavano largamente sugli espedienti della cavatina e della cabaletta. La cavatina, lenta e lirica, doveva consentire al cantante di sfoggiare la sua voce, di dimostrare la sua capacità di tenere una frase lunga con bellezza di suono, di sfumature e di colore. La cavatina era seguita da una sezione veloce chiamata cabaletta, in cui entrava in gioco il virtuosismo. Il bel canto rifletteva in buona misura il piacere dell'improvvisazione proprio del diciottesimo secolo – sfrondata ovviamente di tutto ciò che era esclusivamente divistico nell’accezione negativa del termine - al cantante si chiedeva tecnica impeccabile e gusto nell'abbellimento, nella decorazione e nella cadenza, esso era costituito dalla combinazione di suono puro e tecnica brillante. 
Ma questo ideale - la combinazione di tecnica e di buon gusto - non si incontrava molto spesso nemmeno allora. I cantanti dell'opera, più di tutti gli altri artisti del mondo della musica, tendono ad abusare delle loro prerogative, e ai tempi di Rossini facevano tutto quello che passava loro per la testa. Erano coccolati e viziati, ed erano considerati molto più importanti degli stessi compositori, i quali dovevano essere dotati di grande diplomazia per accontentarli. Se a due primedonne capitava di cantare nella stessa opera, si scatenavano rivalità e sospetti, lacrime e odio. L'una contava le battute delle arie dell'altra per assicurarsi di non essere truffata, poi andava avanti per conto suo e cambiava la musica per adattarla ai propri mezzi. Le cantanti dei tempi di Rossini avevano un atteggiamento talmente disinvolto nei confronti delle note stampate che spesso il compositore, sconcertato, non riconosceva la sua stessa musica. Rossini dovette sempre battersi contro il cattivo gusto delle cantanti. Arrivò a scrivere gran parte degli abbellimenti e pretese che vi si attenessero fedelmente. Ma neppure lui poteva pretendere che una diva seguisse esattamente tutto lo spartito. Anni dopo essersi ritirato, Rossini accompagnò la giovane Adelina Patti in “Una voce poco fa”, dal “Barbiere di Siviglia”: lei abbellì tanto l'aria da renderla irriconoscibile: Rossini si congratulò con lei e poi, gelido, le chiese il nome dell'autore. In realtà egli non aveva niente da obiettare al fatto che si modificassero o si abbellissero le sue arie, dato che era un’usanza molto accreditata, ma a volte la cosa diventava davvero esagerata: “Sono state scritte per questo. Ma non lasciare neppure una nota di quelle che ho composto nemmeno nei recitativi... questo è troppo”.
In Italia, nel primo trentennio del secolo scorso, il compositore arrivava in un teatro, componeva un'opera in una ventina di giorni, dirigeva le prime tre repliche e poi si trasferiva in un'altra città. L'opera italiana funzionava così; era un'attività commerciale come un'altra, e più veloce era il giro d'affari tanto meglio era. Di rado le opere venivano pubblicate, e Rossini, per esempio, sapendo perfettamente che nella città dove si sarebbe recato non avevano mai sentito la sua ultima opera, ne prendeva tranquillamente intere parti e le trasferiva all'opera nuova. La sua più famosa, “Il Barbiere di Siviglia”, del 1816, utilizza arie e pezzi d'assieme della “Cambiale di matrimonio”, del 1810, nonché materiale di altre quattro opere. Anche l'Ouverture, oggi famosissima, fu prelevata quasi di sana pianta da un lavoro precedente. Caratteristico è il fatto che il Barbiere avesse portato via al compositore solo tredici giorni per essere finito. “Ho sempre saputo che Rossini era un pigro” scherzò Donizetti quando glielo riferirono. E Donizetti sapeva quello che diceva, perché a sua volta non ci aveva messo più di otto giorni a comporre “L'Elisir d'amore”. 
I compositori dell'opera del bel canto potevano sfornare spartiti con tanta velocità perché in realtà componevano opere basate su una formula precisa, costruite tutte più o meno allo stesso modo. Ad un coro d'apertura seguivano arie e pezzi d'assieme attentamente distribuiti, tutti schierati rigidamente sull'attenti come soldati, ognuno e ogni cosa al suo posto. Ciascuno dei due atti si concludeva con un coro, nel quale i cantanti principali avanzavano alla ribalta e cantavano da soli, primeggiando in tutto il loro fulgore di divi. 
Felix Mendelssohn, al tempo del suo viaggio in Italia, prese nota, tra il meravigliato e il divertito, dei sistemi dei compositori italiani: “Donizetti” - scrisse ai suoi – “finisce un'opera in dieci giorni. Certo, può essere fischiata, ma non importa, tanto è pagato lo stesso, e lui può andarsene in giro a divertirsi. Se alla fine la sua reputazione dovesse essere danneggiata, allora dovrebbe mettersi a lavorare sul serio, e questo non gli piacerebbe. Perciò qualche volta arriva a dedicare tre settimane a un'opera, dandosi una certa briga con un paio di arie, in vocio da accontentare il pubblico; dopodiché può permettersi ancora una volta di divertirsi e di scrivere di nuovo porcherie”. Questo disse Mendelssohn, l'industriosa formichina tedesca, parlando di Donizetti come la cicala italiana.

Roma, 8 ottobre 2008

 

 

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