Whores’ Glory di Michael Glawogger, presentato alla 68esima, nella sezione Orizzonti, è un film che propone una trilogia antologica sulla professione più antica del mondo, vista nell’ottica di tre culture differenti: thailandese, bangladese e messicana. Allo scopo di mostrarne i codici più intimi, trascendendo luoghi, lingue e religioni, la pellicola demarca un che di sociologico, un modo per riflettere sul ruolo della donna in quelle società cosiddette del Terzo Mondo. In un ventaglio anagrafico dai dodici ai quarant’anni, il “sesso pagato” il regista lo presenta in forma di documentario, offrendo allo spettatore una visione attenta e scrupolosa, ricca dei dettagli più intimi. La pellicola, infatti, esibisce particolari molto precisi, che non risultano volgari, solo perché trattasi di un documentario. Quel che ci si chiede, invece, è se vi sia un effettivo bisogno di indagare certe realtà, sia pur nella modalità usata, a scopo di sensibilizzazione. Benché il merito del cineasta vada anche cercato nel rapporto tra le prostitute e la religione, sempre in primo piano, pur sottolineandone le debite differenze di culto e culturali in genere, la perplessità resta.

C’è, ad ogni modo, uno scarto tra la religiosità delle messicane, “che si augurano una buona morte” - per non dimenticarlo, una delle intervistate si è fatta tatuare la “signora con la falce” in bella vista sulla schiena - e quella delle prostitute thailandesi, che vanno al tempio tra una seduta e l’altra dal parrucchiere. Eppure, in tutte e tre le realtà indagate, le donne non perdono mai il contatto con la religione, sostanziale o formale che sia, ognuno la propria. Essa è sempre parte costante della loro quotidianità. Interessante, comunque, è scoprire come non sempre essere una “lucciola” sia una scelta particolarmente dolorosa: la panoramica sulla vita a luci rosse thailandese, infatti, con le maîtresses amorevoli come mamme, risulterebbe, a conti fatti, la più civile e serena. Spaziando tra eros e thanatos in Messico, passando per la miseria bangladese, per arrivare alla “tranquillità” thailandese, il film presenta un’ampia ricognizione di certe realtà, pur non suscitando nello spettatore un desiderio di replica della visione.
Margherita Lamesta