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L'innovazione e la globalizzazione

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L’innovazione e la globalizzazione*

Recentemente, sia all’interno di alcuni paesi che in alcune manifestazioni mondiali si è ampiamente dibattuto sugli aspetti positivi e negativi della globalizzazione. Alcune proteste come quelle di Seattle, Washington e Praga dove alcune persone protestarono anche in maniera violenta, possono essere considerate come dei fenomeni mondiali che evidenziano una resistenza politica verso i paesi industriali nei confronti della mondializzazione.

 

I dubbi sulla globalizzazione rispecchiano anche questo nuovo stato d’animo: è indispensabile riconoscere come un’economia globale può, senza alcun dubbio, contribuire alla prosperità del mondo, ma è anche necessario considerare i vastissimi fenomeni di disuguaglianza e ingiustizia che la stessa causa a livello mondiale. Di fatto, non esiste nessun vero conflitto tra il volere resistere a tale disuguaglianza e ingiustizia e il capire e assecondare gli aspetti positivi che le relazioni economiche, sociali culturali e globalizzate hanno in tutto il mondo. In realtà, è necessario sviluppare iniziative che possano armonizzare tale processo non solo a livello globale, ma anche e soprattutto a livello nazionale e locale, come sottolineato da Zygmunt Bauman, uno dei sociologi più conosciuti a livello internazionale, in un suo libro del 2005 “Globalizzazione e glocalizzazione”[1] .
È importante anche sfatare il mito che la globalizzazione sia sempre sinonimo di America. Negli indici di audience delle televisioni cinesi e giapponesi è il campionato di calcio italiano che rivaleggia con il basket americano.
La moda disegnata a Milano e Firenze detta legge almeno quanto i jeans e le Nike. L’Italia è a livello mondiale oramai sintomo di raffinatezza nell’arredamento delle case e nella gastronomia. Basta passeggiare poche ore per le vie di Osaka e di Shanghai, di Hong Kong per aprire gli occhi di fronte a questo fenomeno: insieme con l’americanizzazione, l’Asia, il continente del futuro, subisce una evidente, irresistibile, clamorosa italianizzazione, definibile anche come mondializzazione dell’ “Italian way of life” e del “made in Italy”.

Nella globalizzazione è implicita una certa complessità, come evidenziato da G. Bocchi e M. Ceruti che hanno curato il saggio “La sfida della complessità”[2] , e la disinformazione su tale argomento induce timore in molte persone, innescando sentimenti di diffidenza.
Si sente spesso dire che la globalizzazione è una nuova follia. È attraverso gli spostamenti di idee, beni, persone e tecnologia che le diverse parti del mondo ricavano in genere dei benefici. Storicamente la direzione degli spostamenti di idee da una parte all’altra del mondo è variata secondo le epoche, ed è importante riconoscere questi cambiamenti di direzione. Ma abbiamo anche situazioni di “immobilizzazione”. La ricchezza non è stata globalizzata; si è, in verità, concentrata solo in alcune nazioni. Durante gli anni Novanta, la distanza tra i più ricchi ed i più poveri è cresciuta da un rapporto di 60 a 1 ad un rapporto di 74 a 1. Ma è anche vero che la percentuale di persone che vivono sotto la soglia di un dollaro al giorno si è dimezzata negli ultimi vent’anni. Inoltre, tra il 1950 e il 1999 il tasso di alfabetizzazione nel mondo è aumentato dal 52 all’81 per cento.
Sono questi i dati che emergono da un saggio del 2001 di Hernando De Soto “Il mistero del capitale. Perchè il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo”[3] . Lo scienziato politico peruviano, esperto di politiche di sviluppo, si interroga sulla natura profonda del capitalismo e sulle ragioni della disuguaglianza economica; esamina le cause del successo del capitalismo, «[…] l'unico modo fattibile di organizzare razionalmente un'economia moderna[…]», nell'Occidente avanzato, e del suo fallimento nel Terzo Mondo, nonostante quest'ultimo abbia provato ad applicare le ricette liberiste occidentali.
Si parla dunque di un processo non ancora omogeneo, che necessita dell’impegno di tutti i paesi, come Paolo Savona, ricorda in un suo libro del 2004 “Geopolitica economica. Globalizzazione, sviluppo e cooperazione”[4] . Bisogna essere pronti a “crescere insieme” sfruttando le risorse che ogni popolo ha a disposizione. Ma quali effetti ha prodotto la globalizzazione nel mondo? In che modo le nazioni possono sfruttare la globalizzazione a proprio vantaggio?
«[…]Con l’avvento della mondializzazione, società un tempo a basso impatto ambientale stanno diventando ad alto impatto ambientale per due ragioni: da un lato è possibile individuare una causa diretta dovuta ad un aumento degli standard di vita di alcuni paesi poveri, i cui abitanti aspirano a raggiungere lo stile di vita occidentale; dall’altra una causa indiretta, come l’immigrazione, legale o illegale, dal Terzo al Primo Mondo, che fa aumentare la popolazione dei paesi ricchi. Il problema demografico di gran lunga più grave per il mondo nel suo complesso non è l’alto tasso della crescita in Kenya, in Ruanda o in altri Paesi poveri del Terzo Mondo, ma piuttosto l’incremento complessivo dell’impatto umano sull’ambiente, dovuto all’aumento degli standard di vita nei paesi poveri e al fatto che molti individui di questi paesi emigrano in quelli ricchi e ne adottino lo stile di vita[…]»[5] .
Un mondo in cui l’enorme popolazione del Terzo Mondo raggiungesse e mantenesse gli standard di vita tipici del Primo sarebbe insostenibile. Le cose stanno cambiando rapidamente: la Corea del Sud, la Malesia, Singapore, Hong Kong, Taiwan e le Mauritius hanno già raggiunto quel traguardo o vi sono vicine; la Cina e l’India stanno compiendo grandi sforzi e avanzano rapidamente; i quindici paesi ricchi dell’Europa occidentale hanno appena accettato l’entrata nell’Unione di dieci paesi ricchi dell’Europa orientale, proponendosi, in questo modo, di aiutarli nello sviluppo.
La crescita della popolazione determina una più intensa deforestazione, una maggiore produzione di sostanze chimiche tossiche, un aumento della pesca e così via. Una delle dinamiche più preoccupanti è il problema energetico: l’uso dei carburanti fossili per la produzione di energia contribuisce fortemente alla creazione di gas serra; aumentare la fertilità del suolo usando concimi sintetici è controproducente poiché la produzione di questi ultimi richiede dispendio di energia; l’insufficienza di carburanti fossili fa aumentare il nostro interesse per l’energia nucleare, che suscita molte polemiche e preoccupazioni nel caso in cui si verifichi un incidente, infine desalinizzare il mare per risolvere i nostri problemi di scarsità d’acqua dolce è un procedimento che la penuria di carburanti fossili rende sempre più costoso.
Un altro aspetto da evidenziare è dato dal rischio di instabilità politica: nei paesi che hanno distrutto il loro ambiente e/o che sono sovrappopolati può capitare che i cittadini disperati, malnutriti e senza speranza incolpino il governo, ritenuto responsabile delle loro miserie o incapace di risolvere i loro problemi. Nel caso in cui non cercano di emigrare, essi possono iniziare a combattere per il possesso delle scarse risorse: provocando una guerra civile.
La globalizzazione ha fatto sì che i problemi di questi paesi devastati dal punto di vista ambientale e sovrappopolati, seppur distanti geograficamente, siano diventati anche i nostri.
Interessante è a questo proposito, la tesi sostenuta da Naomi Klein, nel recente libro pubblicato nel 2007, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri:

«[...].È così che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario – il colpo di Stato, l’attacco terroristico, il crollo dei mercati, la guerra, lo tsunami, l’uragano – getta l’intera popolazione in uno stato di shock collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono più efficaci, nel rendere malleabili intere società, di quanto la musica assordante e i pugni nella cella di tortura non indeboliscano i prigionieri. Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti. Jamar Perry e gli altri sfollati al centro d’accoglienza di Baton Rouge avrebbero dovuto perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i pescatori dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia ai proprietari di alberghi.
Gli iracheni, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero dovuto essere così scioccati e terrorizzati da rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende pubbliche e alla loro sovranità, cedendoli alle basi militari e alle zone verdi americane.[6]  [...]»

Come ampiamente illustrato da Jared Diamond, nel suo libro del 2005, “Come le società scelgono di morire e vivere”[7] , siamo abituati a credere che questo fenomeno sia a senso unico, cioè che si riduca all’invio dei nostri bei prodotti da ricchi (come Internet e la Coca Cola) ai paesi poveri e arretrati del Terzo Mondo. Ma la globalizzazione non è altro che un miglioramento delle comunicazioni tra le diversi parti del globo e della circolazione di una gran varietà di merci in entrambe le direzioni.
Di conseguenza, oggi le società sempre più interconnesse possono rischiare di crollare globalmente. Qualsiasi evento può causare conseguenze in tutte le parti del mondo. Per esempio, il caos politico nella remota Somalia ha avuto come conseguenza l’invio di truppe americane; quando la Jugoslavia e l’Unione Sovietica si sono sbriciolate, fiumi di rifugiati si sono riversati sui paesi europei e sul resto del mondo e quando nuove malattie si sono diffuse in Africa e in Asia, a causa di mutate condizioni locali, hanno fatto il giro del mondo. È quanto emerge dall’analisi dell’ampia cornice di “Un mondo a rischio”[8], del 2003, di Ulrich Beck, il disastro di Cernobyl, gli sconvolgimenti climatici, la manipolazione genetica e la minaccia del terrorismo ci hanno insegnato una cosa: che a essere globali ormai, oltre ai consumi e alle economie, sono anche i pericoli. Da sempre le istituzioni nazionali hanno tratto la loro legittimazione dalla garanzia del controllo dei rischi: oggi, non possiamo invece prevedere a cosa andremo incontro noi e le generazioni a venire in conseguenza dello sfruttamento delle risorse, delle nanotecnologie, delle manipolazioni genetiche. Diventa così necessario ripensare l’idea di politica, il modo di intendere la sovranità degli stati, il concetto stesso di globalizzazione economica perché la condizione di crescente insicurezza rende precaria ogni promessa di benessere.
Sarebbe auspicabile adottare una visione a lungo termine, ossia sarebbe necessario prendere decisioni risolute, audaci, lungimiranti (e a volte anche dolorose), che consentono di individuare un problema nel momento in cui diventa percepibile. Il governo della Cina ha limitato la tradizionale libertà di scelta riproduttiva individuale, prima che i problemi demografici sfuggissero di mano. Molte società presenti e passate sono riuscite a mettere in discussione i loro valori fondamentali, nonostante si sia trattato di un processo doloroso e difficile.

Oggi ci troviamo sempre più in un mondo eterogeneo caratterizzato da prodotti globalizzati. Un esempio è la fragola “camarosa”[9]. Coltivata a Huelva, in Spagna, nella regione dell’Andalusia, ha i frutti selezionati in California, mentre per raccoglierla, servono le braccia a basso costo che vengono dal Marocco, dall’America Latina, ma soprattutto dalle legioni della disoccupazione dell’Europa centrale e dell’est. Sono le donne, costrette a vivere come schiave che si occupano del raccolto vivendo in condizioni disagiate. Il risultato è che questa fragola costa il trenta per cento in meno rispetto al resto del mercato.
La fragola camarosa simboleggia l’eterogeneità dei prodotti globalizzati, quella stessa eterogeneità che Thomas Friedman ritrova in uno degli oggetti simbolo dell’era globale: il computer.
Nell’inchiesta realizzata da Maurizio Ricci, “Cambio d’epoca. Il mondo nel nostro computer” , apparsa sull’inserto di Repubblica “La Domenica, del 17 luglio del 2005, viene illustrato come Thomas Friedman, il columnist del New York Times, nel suo ultimo libro “Il mondo è piatto. Breve storia del XXI secolo”[11], smonta e cataloga tutte le parti del suo computer.
L’autore ci racconta le diverse provenienze geografiche dei componenti di un computer. Il design viene realizzato un po’ in Texas, un po’ a Taiwan, il microprocessore è Intel, di origine americano, ma è fabbricato in Costarica. I banchi di memoria RAM vengono dalla Corea o dalla Germania, mentre la scheda grafica viene dalla Cina. La ventola di raffreddamento e la scheda madre sono state costruite a Taiwan. Friedman ci dice ancora che, la tastiera viene dalla Cina, lo schermo dalla Corea, la scheda wireless dalla Malaysia, il modem dalla Cina o da Taiwan mentre la batteria è stata prodotta in Messico, l’hard disk a Singapore, il lettore CD/DVD in Indonesia, il trasformatore in Thailandia, la chiave USB, viene da Israele. Il filo elettrico l’hanno fabbricato in India. La borsa per trasportare il tutto arriva dalla Cina. Il computer è un prodotto che si presenta allo stesso modo in tutti i luoghi del mondo ed è costituito da diversi oggetti che, a loro volta, vengono da luoghi distanti migliaia di chilometri. Per questo motivo, Friedman paragona questa catena di assemblaggio ad una sinfonia in cui ognuno suona, con precisione da metronomo, lo spartito che gli è stato chiesto. Volendo, come scrive Ricci,

«[...] è l’immagine di una ONU in versione industriale, in cui tutto il mondo armoniosamente coopera per far arrivare il computer sulla scrivania del consumatore, nel minor tempo e al minor prezzo possibile. È una cartolina vera e falsa al tempo stesso. Perché non rispecchia una realtà in drammatico e vertiginoso movimento [...]»[12] .

Nel 2001, Friedman con il libro “Le radici del futuro”[13] illustrava ai non addetti ai lavori il fenomeno nascente della globalizzazione, l’integrazione planetaria delle economie sembrava un processo a senso unico, colorato a stelle e strisce, con il mondo che guardava tutto insieme “Baywatch”, mangiava gli hamburger McDonald’s, utilizzava i programmi sviluppati nella Silicon Valley. Oggi, nel breve respiro di poco più di cinque anni, gli esperti, a cominciare dalla Cina, già intravedono un mondo che, tutto insieme, guarda i film di Bollywood o i cartoni manga e utilizza i programmi sviluppati a Bangalore.
Un simile esempio è quello fornito, nel recente libro, pubblicato nel 2007 da Tapscott e Williams, Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo:

«[...].come è possibile costruire un aeroplano in tre giorni? Molti dei sub-assemblati – addirittura il 70-80% dei componenti totali – verranno interamente progettati e prodotti da una serie di partner disseminati in varie zone del pianeta. La deriva vertiale, ad esempio, arriverà dagli stabilimenti Boeing di Frederickson, nello stato di Washinghton; i bordi di attacco fissi e mobili delle ali verranno da Tulsa, nell’Oklahoma; la cabina di pilotaggio e la sezione anteriore della fusoliera da Wichita nel Kansas; i bordi d’uscita mobili dagli stabilimenti australiani e i raccordi ala-fusoliera da Winnipeg in Canada. I partner giapponesi, che comprendono Fuji, Kawasaki e Mitsubishi, si stanno occupando del 35% della struttura complessiva del 787, concentrandosi su ali e fusoliera centrale..[...][14] »

È necessario sottolineare, quindi, che non ci sono stati solo dei cambiamenti a livello ambientale e economico. Il mondo in cui viviamo, gli oggetti che utilizziamo sono stati travolti e modificati. Se prestassimo sempre più attenzione agli strumenti che ci circondano, ci accorgeremmo che essi sono stati creati dal lavoro di persone diverse e, in alcuni casi, sono frutto della collaborazione di vari popoli. Basta smontare il pc portatile per capire che quella è solo la retroguardia dell’invasione. L’avanguardia è in mezzo a noi, sta dentro il computer, ed è scritta nell’elenco dei paesi che fabbricano i vari pezzi: Corea, Malaysia, Taiwan, Messico, Singapore. Il nostro computer rappresenta un mondo eterogeneo, possiamo immaginarlo come uno scrigno che, aperto, ci rivela una verità che avevamo già sotto gli occhi, ma facevamo fatica a vedere. Nell’ultima pubblicazione di Levinson del libro The Box. La scatola che ha cambiato il mondo emerge che
«[...]..Il padre misconosciuto della globalizzazione è Malcom McLean, il proprietario di una flotta di camion che nel 1956, per evitare gli ingorghi che paralizzavano la costa orientale degli Stati Uniti, decise di sperimentare una forma innovativa di trasporto via mare. Il 26 aprile caricò su una vecchia petroliera, la Ideal-X, 58 scatole di alluminio grandi come il rimorchio di un tir, facendole salpare da Newark alla volta di Houston, dove le attendevano 58 camion per portarle alle destinazioni finali. Nell’indifferenza più generale, era stato gettato il seme della moderna logistica intermodale. McLean avrebbe dedicato il resto della propria vita a diffondere l’idea del container, vincendo le resistenze di potenti lobby economiche, costruendo prima e distruggendo poi una fortuna (le McLean Industries fallirono nel 1986 con 1,2 miliardi di dollari di debiti) e contribuendo a cambiare la faccia della terra.
Prima del container il trasporto poteva incidere anche per il 25% sul prezzo dei beni di consumo, oggi è diventato, con le parole di Levinson, “una nota a pie’ di pagina nell’analisi dei costi di un’azienda”. Nel 1960, per molte merci, non aveva senso economico produrle su una costa degli Stati Uniti per venderle sull’altra. Negli anni ’90, grazie al container, persino la cittadinanza di un simbolo americano come Barbie era ormai indefinibile: “Operai cinesi fabbricavano la bambola con stampi statunitensi e macchinari giapponesi ed europei; i lunghi capelli di nylon erano giapponesi, la plastica usata per modellare il corpo veniva prodotta a Taiwan, i pigmenti in America e gli abiti in Cina”. La gran parte degli oltre 300 milioni di container che solcano i mari ogni anno non contiene, infatti, prodotti finiti, ma semilavorati e solo l’economicità del loro trasporto consente alle grandi multinazionali di scegliere dove condurre (e, se le convenienze cambiano, trasferire) ogni fase della lavorazione e l’assemblamento finale. Come consumatori ne traiamo immensi vantaggi; come lavoratori corriamo molti più rischi di ieri.
Tra i 58 container dell’Ideal-X e i 300 milioni di oggi ci sono 50 anni di battaglie economiche e sociali. Il container ha spezzato il fronte del porto: non solo non esistono praticamente più scaricatori come il Terry Malloy interpretato da Marlon Brando, ma anche i marinai sono cambiati. Una portacontainer può trasportare 100.000 tonnellate di merci con soli 20 uomini di equipaggio e fermarsi poche ore in un porto lontano da ogni centro abitato per essere scaricata e ricaricata non da squadre di stivatori, ma da file di gru alte 60 metri e pesanti 900 tonnellate. L’economia di porti tradizionali come Liverpool o New York ne è stata devastata.
Per imporsi e per dispiegare i suoi benefici economici il container ha dovuto superare le resistenze dei trasportatori tradizionali, organizzati in cartelli che, in un primo tempo, non consentivano a chi operava con il nuovo strumento di fare prezzi più favorevoli, e dei sindacati dei portuali, che si rendevano conto che la loro categoria sarebbe stata spazzata via dal sistema di logistica integrata resa possibile dal container[...]» [15] .
Sempre secondo i dati presentati nell’inchiesta illustrata dall’inserto “La Domenica”[16] , di luglio del 2005, risulta che

«[...] la Qanta ha prodotto, nel 2004, 16 milioni di computer portatili in 50 diversi modelli, con i marchi Dell, Apple Computer, Sony. Le aziende, soprattutto quelle che più tengono alla loro immagine high-tech, come Nokia o Nikon, si rivelano piuttosto schive quando si tratta di smontare i loro prodotti. Ma l’onda investe tutto l’universo dell’elettronica: computer, telefonini, tv ad alta definizione, lettori mp3, macchine fotografiche, palmari. Qanta non è l’unico nome da ricordare. Memorizziamo anche questi: Htc (telefonini multimediali, Taiwan), Flextronics (cellulari, Singapore), Compal (computer, Taiwan), Premier Imaging (fotocamere digitali, Taiwan). Ci sono loro dietro una serie infinita di prodotti targati, fra gli altri, Dell, Apple, Sony, Motorola, Philips, Hp, Xerox, Ericsson, Alcatel, Siemens, Casio. Secondo gli esperti del settore, il 65 per cento dei computer in commercio, il 20 per cento dei telefonini (multimediali compresi), il 30 per cento delle macchine fotografiche, il 65 per cento dei lettori mp3 e il 70 per cento dei palmari sono fatti integralmente, dal design alla confezione, a Taiwan e nel resto dell’Asia orientale. Tramite questi dati possiamo osservare come lo spazio della mente occidentale si restringa sempre più a favore di un braccio sempre più autonomo e intelligente. Sarebbe come se la bomba atomica fosse stata ideata da Oppenheimer, Fermi e Bohr in un ufficietto di Los Alamos, mentre gli altri 2 mila scienziati che l’hanno realizzata fossero stati sparsi fra Bangalore e Taipei [...]».

Come sottolineato nel già citato libro di Jared Diamond [17],  ci sono differenze tra il mondo moderno e l’antichità, così come tra i problemi di oggi e quelli di un tempo.
Oggi ci differenziamo dalle società del passato per certe caratteristiche che ci espongono ad un rischio minore rispetto a quello affrontato dai nostri antenati; a tal proposito, tutti riconoscono i potenti vantaggi della nostra tecnologia, della medicina moderna e della conoscenza della storia passata e dei suoi errori. Ma queste stesse caratteristiche ci espongono anche a rischi maggiori rispetto ai nostri antenati. La nostra potente tecnologia ha anche effetti (non intenzionalmente) distruttivi e la globalizzazione è tale che persino un disastro nella lontana Somalia si ripercuote sugli Stati Uniti e sull’Europa, inoltre, bisogna considerare i progressi della medicina moderna che ha permesso la sopravvivenza di milioni di noi, ma ha anche determinato un enorme aumento della popolazione umana. Forse possiamo ancora imparare dal passato soltanto se riflettiamo attentamente sul suo insegnamento.
Come ampiamente sottolineato nelle numerose pubblicazioni del giornalista Federico Rampini, una rivoluzione del costume sta minacciando la più antica tradizione che lega tutti i popoli dell’Estremo Oriente: la civiltà del tè perde colpi a Tokyo e a Pechino, a Seul e a Singapore, tra le nuove generazioni asiatiche avanza vittorioso il nostro caffè.

“L’impero di Cindia”[18], pubblicato da Rampini nel 2006, ci racconta che l’imperialismo dell’espresso si è imposto come una guerra lampo. Peccato che a diffonderlo tra i giovani giapponesi e coreani e cinesi, sia stata la Starbucks una multinazionale di Seattle, così come McDonald’s dilaga in tutta l’Asia.
Di contro, nell’abbigliamento e negli accessori di lusso gli stilisti italiani proliferano ancora. A Tokyo nuovi negozi di Armani e Ferragamo, Versace e Prada, si affiancano ai tradizionali Witton, Chanel, Burberrys.
Ma accanto a queste episodiche realtà, troviamo il boom di Ikea di origine svedese e i supermercati francesi Carrefour che vendono gli ingredienti della gastronomia italiana e non è detto che siano doc: avanzano l’olio d’oliva spagnolo, la salsa al pomodoro prodotta in California, il “parmasan cheese” grattugiato dalla Kraft. La più grande catena alimentare che popolarizza il mangiare italiano in Cina è Pizza Hut, multinazionale americana. 
Ancora Rampini, ci dice che:

«[…]È avvilente assistere alla colonizzazione dell’Asia da parte di un “Italian way of life” brevettata da americani, francesi, svedesi. In altri mestieri industriali possiamo farci una ragione delle nostre debolezze. Germania e Giappone hanno venduto ai cinesi 60 treni ad alta velocità per 800 milioni di euro. Noi non abbiamo né la Siemens né la Kawasaki Heavy Industries e neanche l’alta velocità. Il capitalismo italiano ha perso da tempo la battaglia delle dimensioni globali. Ma questo handicap strutturale che ci penalizza nell’informatica e nell’automobile, l’aerospaziale, la farmaceutica, non dovrebbe vietarci anche il business dei supermercati e della gastronomia[…]»[19].

Il mercato globale è fatto anche di produzioni complesse che essendo caratterizzate da varietà, variabilità ed indeterminazione, richiedono lavoro creativo e strutture flessibili di risposta. La globalizzazione non è solo hard economy della quantità che viene dalla Cina o flussi ipertecnologici e finanziari, ma anche soft economy, che incorpora nella merce creatività, design, gusto, sapori e saperi e, perché no, anche tecnologie di nuovi materiali e un saper fare non da grandi laboratori delle nanotecnologie o delle armi del futuro ma applicate alla manifattura.
Occorre interrogarsi se il sistema Paese sarà in grado di sviluppare una scala globale di servizi che prima erano diffusi solo nella dimensione distrettuale e territoriale.
Da numerose pubblicazioni emerse sul quotidiano il Sole24ore, il made in Italy che aveva come vantaggio competitivo il costo del lavoro e la messa al lavoro della famiglia non esiste più. Così come è andata in crisi la grande impresa dei monopoli protetti. C’è sempre una famiglia cinese che lavora di più o una grande impresa cinese che paga di meno. Così come non basta più il sapere contestuale delle ottime scuole tecniche per la sedia, per il mobile... ci vuole un po’ di design e un po’ di università. Il made in Italy delle produzioni complesse è costruito più che dal fare merce, dal creare, progettare e realizzare la merce.
Le produzioni complesse che incorporano il made in Italy e che vanno nel mondo – siano queste le auto progettate da Giugiaro o da Pininfarina e prodotte dalla Fiat, o un paio di scarpe Tod’s, o una lavatrice Ariston sino agli occhiali di Belluno o ai mobili della Brianza o agli ori di Tarì – ce la fanno perché una media impresa leader ha spostato la catena di vendita sulla scala globale, portandosi dietro i tanti fornitori che stanno fuori delle mura.
In molte piattaforme territoriali questo sta avvenendo. Le grandi imprese di un tempo sono più piccole, molti distretti hanno fatto condensa intorno a medie imprese. Tremilacinquecento medie imprese ne controllano centotrentacinquemila e tutte quante galleggiano in un mare di piccole, piccolissime imprese artigiane e di subfornitura.
È questo tessuto manifatturiero che va lentamente innervando di servizi che creano, progettano, vestono con immagini e tecniche le merci un po’ fatte e tutte create in Italia. È l’esercito del made in Italy. È fatto da milioni di persone che lavorano, producono, creano, per evitare il nostro declinare nello spazio globale.

Grazie ad un interessante progetto di ricerca svolto da un gruppo di eminenti economisti dell’università di Princeton, ripreso in un articolo pubblicato dal politologo e sociologo inglese Anthony Giddens l’8 novembre 2006, sul quotidiano “La Repubblica”, “Il nuovo paradigma della globalizzazione” [20] , è possibile formulare un “nuovo paradigma” della globalizzazione, una nuova “visione” e distinta fase nell’evoluzione dell’interdipendenza economica del mondo.
È possibile quindi affermare che la globalizzazione è un insieme di distinti processi di “attribuzione del prezzo delle merci e dei servizi” delle attività economiche.
A partire dal diciannovesimo secolo, la notevole riduzione del costo del trasporto, determinò la possibilità di riprodurre i beni non più vicino al luogo dove dovevano essere consumati. Successivamente, la semplificazione del trasporto e delle comunicazioni, dagli anni settanta in poi, ha consentito la realizzazione in luoghi diversi del processo manifatturiero.
Tutto ciò ha realizzato una divisione globalizzata del lavoro, da parte delle aziende transnazionali, caratterizzata dalla realizzazione in paesi diversi delle varie parti che compongono un prodotto manifatturiero.
Ora, secondo lo studio realizzato, dai professori Gene Grossman, Alan Blinder con la collaborazione di Richard Baldwin, e ripreso da Giddens «[...] ci troviamo di fronte ad una nuova fase del processo di attribuzione del prezzo delle merci e dei servizi risultante dai nuovi processi di delocalizzazione elettronica e riguardante il settore dei servizi e non più quello manifatturiero[…]»[21] .
Un esempio lo sono i call center (di lingua inglese), delocalizzati in India, ai quali chiediamo orari dei treni o altro.
Nella fase odierna della globalizzazione, la concorrenza a livello mondiale si dà a livello del singolo posto di lavoro, più che a livello settoriale o degli scambi. In altre parole lo stesso tipo di lavoro può essere delocalizzato tra aziende e tra vari settori.
Viene sottolineato che

«[...] probabilmente in futuro sarà meno utile individuare i vincitori e gli sconfitti della globalizzazione in termini di settore d’appartenenza o per livello di qualificazione. Alcuni singoli soggetti dei settori più competitivi degli Stati Uniti o dell’Europa potrebbero non essere vincenti man mano che si procede. E i vincenti non avranno necessariamente un’istruzione o una qualifica di alto livello, perchè il loro successo dipenderà dal compito che devono svolgere, non dalla competitività generale dell’azienda o del settore, e neppure dal loro livello d’istruzione [...]»[22] .

Interessante è l’esempio proposto sulla differente retribuzione prevista per un taxista londinese ed uno che lavora a Manila. Al giorno d’oggi il primo guadagna molto più del secondo e non perchè ha una prestazione migliore, ma perchè la natura stessa del guidare un taxi non rende questo lavoro passibile di essere realizzato altrove. Ciò rimarrà invariato fino a quando non sarà possibile guidare un taxi a distanza.
Per una serie di mansioni del lavoro negli uffici, negli ospedali o nelle banche, ritenuti fino ad oggi al riparo dalla concorrenza probabilmente non è più così vero in assoluto.
Ancora Giddens, ci dice che

«[...] questi processi in precedenza non erano stati colti ed analizzati. Prendiamo ad esempio il lavoro dei chirurghi. Gli interventi realizzati a distanza, con medici che si trovano a migliaia di chilometri dal paziente saranno sempre più frequenti. Se ciò avverrà, i bravi chirurghi saranno molto più richiesti di quelli meno bravi, che a loro volta vedranno diminuire il loro reddito, se non sparire la propria fonte di guadagno del tutto. La globalizzazione aiuterà un lavoratore qualificato a scapito di un altro lavoratore qualificato, anche se entrambi apparterranno ad un settore nel quale i paesi occidentali hanno un vantaggio competitivo [...]»[23].

Determinante in tale visione, è il contributo presente nell’ Atlante Luiss,  del 2005 di Dario Antiseri, il quale propone un inventario asistematico e incompleto (come da lui definito) dei vantaggi della globalizzazione:

«[...]non è da sottovalutare il fatto che la moltiplicazione delle fonti di informazione e dei mezzi di comunicazione tende, quasi paradossalmente, ad aumentare “l’opacità informativa”, pur se agenzie di “pulizia delle informazioni” e di “selezione delle informazioni” (Intranet) possono constatare un siffatto fenomeno. Va ricordato che, in ogni caso, la differenza di forza economica si riverbera anche su internet. E che l’aprirsi alla globalizzazione dell’informazione, se rafforzerà i soggetti più dotati, potrebbe anche mettere al margine chi la globalizzazione la subisce, facendo così emergere una specie di “proletario informativo”. Nuovi compiti dunque, dovranno assolvere le scuole di molti paesi. È qui di seguito un inventario asistematico e incompleto di quelli che, a mio avviso, potrebbero essere i vantaggi della globalizzazione:

• Il primo vantaggio della globalizzazione delle informazioni è che un numero sempre più grande di individui possono accedere ad informazioni che prima erano possesso di piccoli gruppi, di “caste”.
• Il secondo vantaggio sta nel fatto che non sono più gli uomini che devono girare attorno alle merci, ma sono le merci che – tramite le informazioni – girano attorno agli uomini.
• Il terzo vantaggio è che le culture minori avranno anche loro il pulpito di quelle maggioritarie, avranno cioè la possibilità di comunicare la loro presenza, la loro storia e le soluzioni dei loro problemi; e far valere i propri diritti.
• Il quarto vantaggio è la prevedibile relativizzazione delle culture chiuse, con l’avvio di un processo di attenzione ad “altre” prospettive etiche e di visioni del mondo, che non potrà non portare ad una convivenza caratterizzata dal reciproco rispetto.
• Il quinto vantaggio della globalizzazione sta nel consentire a quanti sono rimasti indietro da un punto di vista tecnologico di saltare con un colpo solo i costosi passaggi intermedi sostenuti dai paesi industrializzati; c’è chi sta passando dal tamburo all’ultima generazione dei telefonini.
• Il sesto vantaggio, riguardante soprattutto i paesi meno sviluppati, è che in essi si trasferiranno aziende più o meno grandi, con un iniziale innalzamento del reddito per molte famiglie, e il conseguente e successivo apprendimento, da parte dei locali, di tecniche di produzione – e qui sono prevedibili ulteriori conseguenze per lo meno sull’istruzione.
• Il settimo vantaggio è che, abbattendo i costi di transazione, Internet aumenta l’offerta di beni e servizi, con vantaggi in termini di accresciuta concorrenzialità; e, inoltre, riducendo il “full price” dei beni ( prezzi di mercato+costo di ricerca) aumenta la domanda; e, infine, grazie alla risoluzione delle telecomunicazioni, le imprese hanno conseguito aumenti di produttività, sopratutto negli Stati Uniti.
• L’ottavo vantaggio va rilevato nel ruolo svolto dalle organizzazioni internazionali a carattere economico in materia di protezione dei diritti dell’uomo. Difatti, per quanto concerne le organizzazioni internazionali di carattere regionale, come per esempio l’ Unione Europea, esse hanno concluso accordi commerciali con Stati non facenti parte di tali organizzazioni, subordinando espressamente l’ingresso di prodotti provenienti da tali Stati attraverso condizioni economiche di particolare favore ( riducendo ad esempio, le aliquote fiscali fissate per l’immissione di merci prodotte dai paesi in questione) ad un effettivo riconoscimento dei diritti umani[...]»[24] .

Note:

[1] Bauman Z., Globalizzazione e Glocalizzazione, Armando, Roma, 2005
[2]Bocchi G., Ceruti M. (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985-1997
[3]De Soto H., Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo, Garzanti, Milano, 2001
[4]Savona P., Geopolitica economica. Globalizzazione, sviluppo e cooperazione, Sperling & Kupfer, Milano, 2004
[5]Diamond J., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino, 2005, pag. 502
[6]Klein N., Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano, 2007, tratto dall’introduzione
[7]Diamond J., ibidem
[8]Beck U., Un mondo a rischio, Einaudi, Torino, 2003
[9]Tratto dal quotidiano, La Stampa, 14 giugno 2006
[10]Ricci M., Cambio d’epoca. Il mondo nel nostro computer, inserto La Domenica, quotidiano La Repubblica, del 17 luglio del 2005
[11]Friedman T., Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori, Milano, 2006
[12]Ricci M., Ibidem, pag.18
[13]Friedman T., Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l’ulivo: che cos’è la globalizzazione e quanto costa la tradizione, Mondadori, Milano, 2001
[14]Tapscott D., Williams A. D., Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo , Rizzoli, Milano, 2007, pag. 262
[15]Levinson M., The Box. La scatola che ha cambiato il mondo,Egea, Milano, 2007, Introduzione
[16]Ricci M., ibidem
[17]Diamond J. ibidem
[18]Rampini F., L’impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi di persone, Mondadori, Milano, 2006
[19]Rapini. F., Idem, pag 173
[20]Giddens A., Il nuovo paradigma della globalizzazione, La Repubblica, (8 novembre 2006)
[21]Giddens A., ibidem
[22]Giddens A., ibidem
[23]Giddens A., ibidem
[24]Antiseri D., Atlante Luiss 2005,  Quattro scenari per il futuro, Luiss University Press, Roma, 2005, pag. 291-293


* tratto da “L’innovazione a colori: una mappa per la globalizzazione”, Luiss University Press, Roma, 2008

Roberto Panzarani