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Le retour de la planète chevelue

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Des astronomes de l’Université de Genève (UNIGE) membres du Pôle National de Recherche PlanetS, en collaboration avec les universités de Berne, Warwick, Grenoble Alpes et l’Institut d’astrophysique de Paris, ont braqué le télescope spatial Hubble sur une exoplanète qui avait déjà été observée perdant son atmosphère. Celle-ci forme un immense nuage d’hydrogène, donnant à la planète l’aspect d’une comète géante. Cependant, les précédentes observations, datant de 2015, n’avaient pu couvrir l’ensemble du nuage, dont la forme avait été prédite par des simulations numériques. Grâce à de nouvelles observations, les chercheurs viennent enfin de confirmer leur prédiction. Les résultats sont à lire dans la revue Astronomy & Astrophysics.

L’exoplanète GJ 436b, d’une taille semblable à Neptune (soit environ quatre fois la Terre), révèle une immense chevelure de gaz lorsqu’on la regarde à travers des lunettes ultraviolettes. Ce phénomène, découvert en 2015 par des astronomes de l’Observatoire de la Faculté des sciences de l’UNIGE, serait dû à la proximité entre la planète et son étoile, dont elle fait le tour en moins de trois jours. En raison de l’irradiation intense à laquelle elle est soumise, la planète perd une partie de son atmosphère d’hydrogène. Cette atmosphère perdue forme un énorme nuage de gaz autour de la planète et absorbe le rayonnement ultraviolet de l’étoile. C’est pourquoi le nuage n’est visible qu’avec l’œil sensible aux ultraviolets du télescope spatial Hubble.

«Nous avons été surpris par ce phénomène, d’une telle ampleur que nos premières observations n’avaient pu couvrir l’ensemble du nuage lors de son passage devant l’étoile», révèle David Ehrenreich, professeur associé à l’UNIGE et responsable du projet européen FOUR ACES, à l’origine de cette étude. Aussi, l’équipe avait-elle extrapolé les données collectées à l’aide d’un modèle numérique afin de prédire quelle devait être la forme exacte du nuage. Le résultat des simulations montrait la planète entourée d’une chevelure semblable à celle d’une comète, se prolongeant sur des dizaines de millions de kilomètres.

L’équipe dirigée par Baptiste Lavie, doctorant PlanetS à l’UNIGE, a pointé à nouveau Hubble sur GJ 436b. Et les résultats confirment en tous points les prédictions des chercheurs : «Je me faisais des cheveux blancs à l’idée d’analyser ces nouvelles observations», indique Baptiste Lavie. «C’est donc une grande satisfaction de voir que le panache d’hydrogène s’échappant de la planète est bien là, conforme aux prédictions, car nous comprenons à présent comment il se forme», souffle-t-il.

En effet, les données injectés dans le modèle numérique expliquent correctement les observations : «Nous avons même pris en compte la pression que la lumière de l’étoile exerce sur les atomes d’hydrogène qui s’échappent de la planète !» précise Vincent Bourrier, astronome à l’UNIGE, qui a développé le modèle numérique.

La résolution de l’énigme posée par ce phénomène exceptionnel va maintenant permettre aux chercheurs de comprendre comment il affecte d’autres exoplanètes, certaines encore plus irradiées que GJ 436b. «Nous nous attendons maintenant à de nouvelles surprises», sourit Baptiste Lavie.

PlanetS est un Pôle de Recherche National (PRN) du Fond National suisse de la Recherche scientifique.

FOUR ACES (Future of Upper Atmospheric Characterisation of Exoplanets with Spectroscopy) est un projet européen financé par une bourse «Consolidator» de l’European Research Council (bourse ERC n°724427).

Flash News

Nella mappa tra gli hot-spots più colpiti ci sono Amazzonia, le savane boschive di  Miombo nell'Africa meridionale, l’Australia sudoccidentale e il Mediterraneo

Mancano 10 giorni dall’evento globale su clima e ambiente - Earth Hour

Se le emissioni di CO2 continueranno ad aumentare senza controllo, il mondo è destinato a perdere almeno la metà  delle specie animali e vegetali oggi custodite nelle aree più ricche di biodiversità. A fine secolo potremmo assistere ad estinzioni locali in alcuni paradisi come l’Amazzonia, le isole Galapagos e il Mediterraneo. Anche rimanendo entro il limite di 2°C posto dall’accordo sul clima di Parigi, perderemmo il 25% delle specie che popolano le aree chiave per la biodiversità. È uno dei risultati più allarmanti del nuovo studio pubblicato oggi sulla rivista Climatic Change e realizzato da esperti dell’Università dell'East Anglia, della James Cook University e dal WWF.
Pubblicata a pochi giorni dall’evento globale Earth Hour, il più grande movimento globale per l'ambiente in programma il prossimo 24 marzo, la ricerca ha esaminato l'impatto dei cambiamenti climatici su circa 80.000 specie di piante e animali in 35 delle aree tra le più ricche di biodiversità sul pianeta. La ricerca esplora gli effetti sulla biodiversità alla luce di diversi scenari di cambiamento climatico - dall’ipotesi più pessimista con assenza di tagli alle emissioni e conseguente aumento delle temperature medie globali fino 4.5° C, a quella di un aumento di 2 °C, il limite indicato dall’Accordo di Parigi. Le aree sono state scelte in base all’unicità e varietà di piante e animali presenti. Le savane boschive  a Miombo in Africa, dove vivono ancora  i licaoni, l’Australia sudoccidentale e la Guyana amazzonica si prospettano essere tra quelle più colpite.
In queste aree gli effetti di un aumento di 4.5 °C creerebbe un clima insostenibile per molte specie che oggi vivono in questi paradisi naturali, ovvero:
- Fino al 90% degli anfibi, l’86% degli uccelli e l'80% dei mammiferi si potrebbero estinguere localmente nelle foreste a Miombo, in Africa meridionale
- L’Amazzonia potrebbe perdere il 69% delle sue specie vegetali
- Nell’ Australia sudoccidentale l'89% degli anfibi potrebbe estinguersi localmente
- Nel  Madagascar il 60% di tutte le specie sarebbe a rischio di estinzione locale
- Le boscaglie  del  fynbos nella regione del Capo Occidentale in Sud Africa, che stanno vivendo una fortissima siccità con carenze idriche significative verificatesi anche a  Città del Capo, potrebbero affrontare estinzioni locali di un terzo delle specie presenti, molte delle quali sono uniche di quella regione
Mediterraneo bollente. Il Mediterraneo è tra le Aree Prioritarie per la biodiversità più esposte ai cambiamenti climatici, in cui basterebbe un cambiamento climatico “moderato” per rendere vulnerabile la biodiversità: anche se l'aumento delle temperature si limitasse a 2 °C, quasi il 30% della maggior parte dei gruppi di specie analizzate di piante ed animali sarebbe a rischio. Continuando con gli attuali andamenti , senza cioè una decisa diminuzione delle emissioni di gas serra, la metà della biodiversità della regione andrà persa. Le specie più a rischio sono le tartarughe marine (si tratta di tre specie, la più diffusa è la Caretta caretta) e i cetacei, presenti in Mediterraneo con 8 specie stabili e altre 13 presenti occasionalmente, tutti in sofferenza già per altri tipi di impatto antropogenici. L’innalzamento delle temperature probabilmente supererà la variabilità naturale del passato, rendendo questa zona del pianeta un hotspot dell’impatto climatico. Dovremo aspettarci periodi di siccità in tutte le stagioni, con potenziali stress da calore per gli ecosistemi e le specie  più sensibili, come le testuggini d'acqua dolce, o gli storioni: Questi ultimi sono minacciati sia per il cambiamento del regime di salinità, sia per la riduzione dell'areale idoneo, combinazione drammatica per specie già fortemente indebolite dalla pesca illegale.
Oltre a ciò, l'aumento delle temperature medie e l’irregolarità delle precipitazioni potrebbe diventare la nuova “normalità”, secondo il rapporto, con una significativa riduzione delle precipitazioni nel Mediterraneo, in Madagascar e nel Cerrado-Pantanal in Argentina.

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