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Kulkinski – natural born killer. “The Iceman” di Ariel Vromen – Fuori Concorso – Venezia 2012

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Un serial killer completamente dissociato ed una moglie apparentemente ignara dell’origine dei suoi agi, sempre più consistenti: è questa la storia trattata da Ariel Vromen, nel suo The Iceman, Fuori Concorso a Venezia 2012. Richard Kulkinski, famigerato assassino con un curriculum esemplare - più di cento morti ammazzati, forse duecentocinquanta, nei modi più efferati - è al soldo della mafia e delle famiglie più sanguinarie. È un’outsider esistito realmente e morto in prigione nel 2006, dopo essere stato catturato nel 1987. Nei suoi abissi si cala Michael Shannon, interpretando questo essere mostruoso, che sino alla fine dichiara di aver avuto un solo rammarico: aver fatto soffrire sua moglie e le sue due bambine.

 

Il film si apre con un primo piano su Winona Ryder, che interpreta la moglie del sicario, seduta con sguardo innocente da ragazzina, rivolto all’enorme uomo sinceramente innamorato, di fronte a lei. Da lì tutto scorre su due binari paralleli. Senti sempre la tensione e la sensazione che le due strade possano intrecciarsi in modo drammatico, da un momento all’altro, e la sceneggiatura porta più di una volta i due binari sul punto d’incrocio ma non accade mai.

È serrato il ritmo del film, cui fa da valido alleato la colonna sonora. Dall’inizio alla fine, si è senza fiato. C’è come un terrore invisibile che corre per tutto il film.

I due protagonisti si sono avvicinati in modo molto diverso ai loro ruoli. Ryder ha preferito giocare con la dualità del ruolo e non ha mai cercato un contatto con la donna – cosa insolita per il suo metodo interpretativo. Sapeva solo che lei e le sue figlie avevano cambiato nome. Il suo ruolo fa quello che fa costantemente un attore: si veste di ambiguità. Forse non sa davvero ma non esplora, non scava a fondo, non vuole farlo, per non assumersi responsabilità. Vive di denaro sporco e quanto ne sia consapevole o meno è un quesito irrisolto tanto per l’attrice, quanto per lo spettatore. Negli atti del tribunale, la donna aveva dichiarato di essere stata maltrattata sotto la minaccia della pistola, di aver custodito la pistola del marito ma non si sa davvero quanto fosse coinvolta.

Shannon, dal canto suo, ha studiato le interviste rilasciate dal serial killer in tivù ed è lì che ha potuto scorgere quanto contasse la sua famiglia per lui: quanta rabbia avesse dentro che lo aveva portato alla consapevolezza, sin dalla più tenera età, di non possedere alcuna qualità. La sua rabbia la vomita su persone colpevoli, in fondo, o comunque non così innocenti. Se non fosse stato assoldato dai Gambino o i Clemente di turno, probabilmente, l’avrebbe sfogata sulle persone, in modo casuale e forse ancora più drammatico. Eppure, mantiene una sua “etica”: non uccide donne e bambini, puntando piuttosto la pistola contro il “collega”, che naturalmente fredda in pieno. È singolare che sia diventato padre di due femmine. Se ci fossero stati dei maschi in famiglia, forse i due binari non sarebbero restati paralleli così a lungo, verrebbe da pensare.

L’interprete ha voluto puntare su un personaggio ignoto con qualcosa di profondo che facesse paura. Non è una figura di mafioso da manuale Kulkinski, anche se di Michael Corleone o di Scarface non si può certo dire che non tenessero alla famiglia. La dualità di questo personaggio, tuttavia, è più netta, gli estremi si stagliano senza alcun punto di raccordo tra i bianco e il nero, senza alcuna sfumatura di grigio. La sua è una dualità non umana, una forma di dissociazione patologica portata ai massimi livelli. Il personaggio ha un comportamento dissociativo necessario che viene da lontano, però, e che esprime con una totale assenza d’emozione sul volto, sostituita, di volta in volta, da quell’espressione congelata dentro un vuoto assoluto. “Da adulto mette solo in pratica quello che ha subito da piccolo” – è quanto ha dichiarato Michael Shannon, in conferenza stampa.

Il film è bello e gli attori sono bravi, molto bravi, ma non si può sempre perdonare perché da piccoli alcuni sono stati più sfortunati di altri. Ci sono molti modi per incanalare le delusioni, i dolori, le ferite, le violenze più ignobili, addirittura mettendosi al servizio degli altri invece che contro l’altro, per esempio. L’esaltazione di un serial killer veicola un messaggio propagandistico, che spinge comunque verso la violenza. Il film ha una linea fredda, non lo esalta e non lo condanna. Lo presenta a noi, per far riflettere. Eppure, nel suo essere sinistro, il quadro che ne viene fuori ha qualcosa di affascinante. Sembra di avere di fronte una storia mistica. Alla fine del film, non esaurisci la conoscenza del personaggio né lo raggiungi profondamente, regalandogli così un “non so che” di seduttivo, di mitologico…e francamente, oggi, non sentiamo proprio il bisogno di eroi così negativi, che non possono e non devono essere degli eroi.

 

Margherita Lamesta

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